sabato 30 aprile 2016

In mostra a Trieste i disegni inediti di Pasolini e le incisioni di Zigaina

Sabbia, conchiglie, foglie, fiori. Sono i materiali che Ninetto Davoli passa a Pierpaolo Pasolini, intento a realizzare i suoi disegni, sullo sfondo senza fine della laguna di Grado. Un inedito Pasolini pittore, nella scena di poesia quotidiana immortalata in uno scatto fotografico che ne restituisce tutta l’intensità. Anche questa immagine, come i disegni di Pasolini, saranno esposti a Trieste dal 16 aprile fino all’8 maggio. Una piccola mostra, una ventina di pezzi appena. Ma raccoglie e rilancia una storia importante, ricostruita all'interno di un progetto intitolato “Zigaina e Pasolini”, dedicato al sodalizio tra il pittore e il poeta-regista, sul set.

Nel contesto, partendo dalla location gradese del film Medea (1969), si è approfondito il rapporto di Pasolini e Zigaina con il territorio lagunare. Ed è nata così l'esposizione che al Museo Revoltella di Trieste, dal 16 aprile all' 8 maggio, mette a confronto i disegni realizzati da Pasolini sull'isolotto di Mota Safon e le incisioni elaborate da Zigaina nel complesso ed esistenziale rapporto con il suo territorio d'origine.

Durante la ricerca, grande è stata la sorpresa nel ritrovare un nucleo di disegni di Pasolini ancora nelle case dove l'autore le lasciò: da quel 1969, anno delle riprese del film, sino al 1972, quando si tenne l'ultima importante presenza di Pasolini a Grado, il regista produsse una serie ancora imprecisata di opere su carta che egli stesso donò agli amici che aveva incontrato nel territorio, cui spesso, come risulta di suo pugno, dedicò alcuni lavori.
Dimenticati da allora, sono riemersi partendo dalla testimonianza di Zigaina raccolta da Francesca Agostinelli, curatrice della mostra, negli ultimi anni di vita del pittore. Confrontando il racconto con materiali fotografici, carteggi e testimonianze del luogo, la critica ha ricostruito la tessitura di relazioni e amicizie che ha portato al ritrovamento dei disegni pasoliniani.
Si sono così individuate otto collezioni private tra Grado, Aquileia, Cervignano del Friuli, San Giorgio di Nogaro da cui sono riaffiorati nove disegni che testimoniano il paesaggio che Pasolini realizzò staccando l'occhio dalla macchina da presa. Si tratta di un ritratto di Maria Callas, la grandissima Medea nel film, sono pali e reti dell'isolotto di Mota Safon, location della casa del Centauro e fondale delle riprese con Laurent Terzieff, Maria Callas, Giuseppe Gentile.
Altri brani ancora riprendono i Lumi del Safon, in una lettura rapida del luogo testimoniata da una serie di fotografie in cui Pasolini disegna sull'isolotto gradese, accanto al pittore Zigaina e Ninetto Davoli. Si tratta di opere su carta realizzate senza ripensamento partendo dai mezzi che Ninetto Davoli passa al regista e completati da materiali prelevati dall'intorno: sabbia, conchiglie, foglie, fiori.

Tra tutti, Paletti del Safon pare realizzato nell'istante fermato da una fotografia. Pasolini è di spalle e Ninetto lo aiuta. Davanti a loro la vastità ferma della laguna. Ma l'inciampo dello sguardo è nell'assemblaggio “alla buona” di pali e reti, posto su un paesaggio a perdere davanti allo sguardo di Pasolini, che pur padroneggiando vastità vertiginose, si ferma sugli elementi poveri della prossimità.

Questi lavori saranno dunque visibili al Museo Revoltella, nella mostra «Le due lagune. I disegni di Pasolini, le incisioni di Zigaina», nella quale cinque dei pezzi ritrovati saranno accostati a un nucleo di opere di Pasolini provenienti dalla collezione Zigaina, amico del regista, che fu grande estimatore del Pasolini disegnatore e pittore e raccolse nella sua collezione privata quasi cinquanta opere dell'amico. Ma non finiscono gli elementi di novità della mostra: accanto ai ritrovamenti pasoliniani ci saranno due inediti di Zigaina che rappresentano le ultime opere realizzate dall'artista all'età di novanta anni. Sono l'estremo contributo al ciclo Verso la laguna, e rappresentano quel paesaggio affettivo ed esistenziale da Giuseppe Zigaina indagato sino agli ultimi giorni della sua vita.















 «Le due lagune. I disegni di Pier Paolo Pasolini e le incisioni di Giuseppe Zigaina»
a cura di Francesca Agostinelli
Civico Museo Revoltella, Trieste
Galleria d'Arte Moderna
16 aprile - 8 maggio 2016
http://www.museorevoltella.it

mercoledì 27 aprile 2016

L’auditorium “Fabrizio De Andrè” di Scampia suggella il gemellaggio tra Napoli e Genova


Fabrizio De Andrè, musicista, poeta e...genoano. Con l'intitolazione dell'auditorium di Scampia, in viale della Resistenza, al cantautore scomparso nel 1999, Napoli ha di fatto sancito ancora una volta il gemellaggio con Genova e con, probabilmente, il suo interprete maggiore, colui che ha messo in musica lo spirito della città di mare ligure e la sua saudade quasi brasilera. La cerimonia, alla quale è intervenuta Dori Ghezzi, moglie di Faber, ha avuto due momenti molto belli e toccanti. Di mattina, quando le autorità comunali, con il sindaco de Magistris e l'assessore alla Cultura Nino Daniele, hanno scoperto la targa che suggella una splendida idea legata al doppio filo che corre tra Napoli e Genova e quando il coro delle scuole di Scampia ha dedicato alcune canzoni di Faber a Dori Ghezzi. Emozioni anche di sera quando si è assistito all'esibizione di varie band napoletane come A67, La Maschera, Raiz, Maldestro, Letti sfatti, Maurizio Capone e diversi altri, tutti con una propria rivisitazione del repertorio deandreiano.


Intitolare un auditorium a De Andrè in un quartiere che è allo stesso tempo simbolo di certo degrado ma anche voglia di riscatto, è un bel regalo per il musicista che ha sempre cantato degli umili, degli oppressi, degli ultimi, è il segno forte che un piccolo miracolo può sempre avvenire. È l'auspicio che questa struttura, con l'aiuto dei ragazzi del quartiere, delle mamme, della gente onesta e pulita, può essere un veicolo di attrazione per molti ragazzi. Sarà un luogo dove poter trascorrere piacevoli ore invece di stare in strada. “Guagliuni” che possono coltivare le proprie passioni come si fa col calcio, il pugilato, le arti marziali, il basket, attività già presenti nella zona. La musica, dunque, può rappresentare un volano per ripartire, per far sì che Scampia non sia solo cronaca nera e misfatti, tutto in nome di un amico di Napoli, un nostro gemellato.

La notizia che, però, viene fuori e che può far piacere a tutti gli appassionati di calcio e agli amanti della nostra città, soprattutto dopo aver letto le parole di Dori Ghezzi, è che Faber aveva un gran bel rapporto con Napoli. Non a caso, la locandina della manifestazione mostra una foto di De Andrè ventenne ritratto all'esterno della “Bersagliera” noto ristorante di Mergellina. Era il 1960 e il cantautore genovese veniva spesso in città perché era innamorato di una ragazza partenopea, si dice la sua prima fidanzata ufficiale. Ha amato la musica napoletana, ha collaborato con Murolo, ha canticchiato antiche melodie con una vena che possiamo ritrovare solo nelle sue composizioni più originali. Genova e Napoli, non lo scopriamo oggi, hanno molto in comune ed anzi, tra le città del Nord, De Andrè considerava Genova la “più terrona”.

Quando tre anni fa uscì “Il grifone fragile” il libro che Tonino Cagnucci gli dedicò sottotitolandolo “storia di un tifoso del Genoa”, capimmo che il calcio, per uno come lui che sembrava schivo, introverso ed elitario per certi versi, era importante. Venne fuori il vero De Andrè apocrifo, quello che si fece cremare con la sciarpa del Genoa. Ci può essere amore più grande? Aveva i rossoblù dentro il suo cuore ma, per una forma di pudore, non lo faceva capire e quando gli chiedevano perché non scrivesse un inno alla squadra dichiarava sempre: «non lo faccio, il Genoa mi coinvolge troppo, non avrei il necessario distacco per farlo». Con questo, e voglio sottolinearlo, una certa cultura che ha sempre pensato che il calcio fosse, con tanti pregiudizi, un fenomeno dozzinale, da oppio dei popoli, da divertimento popolare, è stata clamorosamente smentita.

Come, De Andrè tifoso? Sembrava scandaloso e ridicolo accostare un artista e poeta al mondo del pallone, eppure quando Cagnucci ha pubblicato i diari, scritti di suo pugno, con le formazioni rossoblù, le tabelle salvezza, i sogni di mercato, addirittura improperi contro la Juve ed il Milan, i diffidati della squadra che avrebbe incontrato il Genoa la domenica successiva, i marcatori, il racconto della prima volta allo stadio, è sembrato tutto più lapalissiano. Eravamo di fronte a un malato del Genoa, tifoso di Zigoni e Meroni, polemico col suo amico Paolo Villaggio, notoriamente sampdoriano. Un libro a tratti struggente, come quando chiede ai suoi rapitori cosa ha fatto il Genoa contro la Ternana, come quando scrive “Giugno 73” per festeggiare il ritorno in serie A del Grifone o quando chiede a Gesù bambino “caro Gesù, portami la divisa da giocatore del Genoa”".A noi piace ricordarlo così, sorridente anche quel maggio del 1982 quando Faccenda segnò il 2 a 2 a Napoli ed iniziò uno splendido gemellaggio coi cugini genoani. Bene, da oggi in avanti, con un auditorium a lui dedicato a Scampia, tiferemo ancora di più per il Grifone. 


martedì 26 aprile 2016

«Faccio pace con mio padre Faber. L’orgoglio per me è arrivato tardi»

I conflitti familiari, l’alcol, l’assenza: esce l’autobiografia di Cristiano De André
«Lui ha avuto problemi nell’infanzia, poi li ha avuti con me ed io con i miei figli»


C’è un Fabrizio De André artista. E un Fabrizio De André privato. Tanto grande indiscutibilmente è stato il primo, quanto discusso è stato il secondo. A metterli a confronto è il figlio Cristiano. Che sta per pubblicare la propria autobiografia La versione di C. (Mondadori) e a ripartire in tour con il progetto «De André canta De André». Le pagine scritte da Cristiano sono spesso crude. Racconta dei suoi trascorsi con l’eroina e l’alcol, di quando ha alzato le mani sulla moglie, del rapporto altalenante con i figli. «È stato terapeutico. Mi sono denudato, avevo bisogno di fare pace col passato e vincere dei fantasmi». Il musicista 53enne (C. era il soprannome coniato dal genitore) non risparmia nulla nemmeno al padre. Racconta di quanto sia stato assente, di quanto poco lo vedesse causa la sua attitudine al lavoro notturno e l’andare oltre con la bottiglia, di quanto fosse avaro sentimentalmente. Aneddoto: quando nel 1993 arrivò secondo a Sanremo lo chiamò: «Questa è la seconda soddisfazione che mi dai dopo il dentice pescato a sei anni! Complimenti, C., sono orgoglioso di te». «Alla fine però esce il senso del perdono. Che c’era già stato con lui ancora in vita. Essere padre non è nel Dna di tutti. Lui ha avuto problemi nell’infanzia e nell’adolescenza, li ha poi avuti con me e io li ho avuti con i miei figli». Dopo anni turbolenti ci fu il riavvicinamento, quando Fabrizio gli chiese di suonare e di firmare degli arrangiamenti per il tour di «Anime salve». «Anche se tardi e col contagocce, ho sentito il suo orgoglio». 

Il peso del cognome, la droga... erano solo accenni del testo di «Invisibili», portata a Sanremo 2014. «La canzone ti protegge, è uno scudo. In un’autobiografia è diverso. Devi scrivere tutto. Il coraggio di farlo me lo ha insegnato la coerenza di papà, il suo essere controcorrente». Il peso di essere figlio d’arte l’ha sentito. «C’è gente che ti sottolinea di continuo quanto lui fosse un genio e quanto tu non lo sia. Non avevo quella creatività che aveva lui come cantautore, ma sapevo che avrei fatto il musicista. Ho studiato al Conservatorio, ho fatto la gavetta e oggi ho più sicurezza in me». Faber ha debuttato 50 anni fa con «Tutto Fabrizio De André», album con brani che hanno fatto la storia della canzone italiana come «La guerra di Piero», «Via del Campo» e «La canzone di Marinella». Saranno l’ossatura del nuovo tour, il terzo, «De André canta De André», debutto il 24 giugno dalla Cavea dell’Auditorium di Roma. «Non coverizzo mio padre, proseguo il suo lavoro portandolo a chi lo ha amato e alle nuove generazioni che non l’hanno potuto vivere direttamente». Quei brani erano densi di messaggi forti. «Ha anticipato i tempi. È stato un punto di appiglio nel vuoto esistenziale, nel nulla che si è amplificato con l’idea che la felicità si possa comprare, che ci sia un dio filigranato davanti cui inginocchiarsi, una sottocultura figlia del berlusconismo. Oggi direbbe le stesse cose di allora». 

Lo show, che diventerà poi un live, è diverso dai due precedenti. «Ci saranno 15-18 pezzi che non avevo mai fatto prima. Nei primi spettacoli avevo un’idea più rock degli arrangiamenti e non ci stava bene. Adesso stiamo andando verso un suono che abbraccia l’elettronica alla Talking Heads o Peter Gabriel. Del resto papà sognava di fare un disco con i Pink Floyd... In futuro vorrei fare un altro capitolo: le canzoni d’amore in versione classica, con l’orchestra». È stata coraggiosa l’idea di riprendere le canzoni del padre. « È un modo per avvicinarmi a lui. Ogni volta che riascolto i suoi brani colgo cose nuove. Sapeva essere spietato con se stesso, scavava dentro di sé fino in fondo. E a differenza di altri non ha ceduto al mercato».
Bilancio finale. Come è stato essere figlio d’arte di Faber? «Poteva andare peggio... I confronti li lascio a chi ne ha bisogno». Ed essere stato figlio di Fabrizio De André? «Adesso sono finalmente in pace».

sabato 23 aprile 2016

Dai Rolling Stones a De André: quando la letteratura ispira la musica



C'è da sempre un rapporto di reciproca influenza e ispirazione fra la letteratura e la musica. Ecco alcuni esempi di canzoni ispirate a opere letterarie: da De Andrè ai Rolling Stones, senza dimenticare Bob Dylan, Bruce Springsteen, i Blur, Franco Battiato, i Metallica e tanti altri... Lo speciale (in cui si citano autori come Hemingway, Camus, Shakespeare, Emily Brontë, Francis Scott Fitzgerald e...) 

Nel periodo in cui lavoravo alla stesura del mio libro, ebbi per le mani due dischi, in prestito. Oltre a Satisfaction, avevo Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, dei Beatles. Era la combinazione perfetta. Insuperabile: i Beatles mi trasmettevano una sensazione di lontananza, dopotutto, facevano sempre parte dell’eredità dell’ultimo vaudeville inglese e li spaventava a morte la Rivoluzione. I Rolling Stones, invece, continuano ancora oggi ad avere “simpatia per il diavolo”. Così uno dei più noti scrittori cubani, Norberto Fuentes descrive il significato dello storico concerto di Mick Jagger e compagni a l’Havana avvenuto qualche settimana fa.

La loro musica ha ispirato i suoi libri.

Ma quanti libri sono stati lo spunto o l’oggetto palese della creazione di brani musicali?
Quello tra letteratura e musica è un rapporto ancestrale. I poemi classici, le ballate medievali, l’opera, ne sono solo un esempio. Anche cantautori e rock band hanno attinto e continuano ad attingere a piene mani ai personaggi dei romanzi o ai versi dei poeti nella stesura delle loro canzoni.

L’ispirazione può essere palese sin da titolo e ritornello oppure più velata. Veri e propri “metatesti” o più semplicemente parole che attraverso le note conoscono nuova vita.

Di seguito troviamo 15 canzoni che si rifanno a classici della letteratura.

E tra queste c’è anche Sympathy for the Devil dei Rolling Stones.

Fabrizio De Andrè – Non al denaro, non all’amore né al cielo

 

   

 

È questo il tributo, datato 1971, che il Faber rivolge all’Antologia di Spoon River (1915) di Edgar Lee Masters. Le epigrafi in versi dei defunti “che dormono sulla collina” diventano lo spunto per ritratti indimenticabili come “Un giudice”, “Un chimico”, “Un matto”, “Un malato di cuore”, “Il suonatore Jones” e molti altri. Poesia che incontra poesia e gli arrangiamenti senza tempo del cantautore genovese danno vita a nuovi capolavori. Un esempio: gli ultimi versi di “Un blasfemo” che si rifanno a “Wendell P. Bloyd” nella raccolta di Masters: “E se furon due guardie / a fermarmi la vita, è proprio qui sulla terra / la mela proibita, / e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato, / ci costringe a sognare in un giardino incantato”.

The Rolling Stones – Sympathy for the Devil


“Consentitemi di presentarmi: sono un uomo ricco e di gusto”. Mick Jagger incarna così un Lucifero che è in giro “per San Pietroburgo” con l’apparenza di un gentiluomo. Il brano, traccia iniziale dell’album Beggars Banquet del 1968, sembra un richiamo diretto al romanzo Il maestro e Margherita di Mikhail Bulgakov, pubblicato solo un anno prima, tra il 1966 e il 1967. Una citazione di cui il leader della band sembra non ricordare l’origine stando alle sue dichiarazioni riportate in un’intervista del 1995 alla rivista Rolling Stone: “Penso che l’ispirazione venne da una vecchia idea di Baudelaire, credo, ma potrei sbagliarmi. Alle volte quando rileggo i miei libri di Baudelaire, non la ritrovo. Ma era un’idea che rubai ad uno scrittore francese. Ne presi solo un paio di frasi e le ampliai. La scrissi come una sorta di canzone alla Bob Dylan”. Genio e smemoratezza? Forse semplice prova di come questo tipo di richiami e influenze siano talvolta più frutto del caso o di un magma culturale comune (e meno premeditate) di quanto a posteriori possa apparire.

Bob Dylan – Ballad of a Thin Man


In questo criptico brano tratto da Highway 61 Revisited il menestrello cita uno dei padri della letteratura americana: Francis Scott Fitzgerald. Rivolgendosi a un fantomatico “Mr. Jones” che a sua volta sembra rifarsi al protagonista dell’omonimo film, The Thin Man del 1934 diretto da W.S. Van Dyke, afferma: “You’ve been through all of F. Scott Fitzgerald’s books / You’re very well read” (“Hai letto tutti i libri di F. Scott Fitzgerald / Sei un uomo molto istruito”). Il signor Jones, che entra in una stanza abitata da personaggi bizzarri e alternativi e “non capisce cosa stia succedendo” appare come un simbolo di autocompiacimento e mediocrità.

Bruce Springsteen – The Ghost of Tom Joad

É questa la rilettura in chiave moderna di un caposaldo della cultura statunitense, Furore di John Steinbeck. L’omonimo album è datato 1995. Il Boss, non nuovo a trarre ispirazione da romanzi e film, in questo caso segue le vicissitudini della famiglia Joad durante la grande crisi del ’29. Basta ascoltare versi emblematici come: “Shelter line stretchin’ ‘round the corner / Welcome to the new world order / Families sleepin’ in their cars in the Southwest / No home, no job, no peace, no rest” (“La fila per un aiuto è così lunga da girare l’angolo, / benvenuti nel Nuovo Ordine Mondiale, / famiglie dormono nelle loro macchine nel Sudovest / senza casa, senza lavoro, senza pace, senza riposo”). Eppure l’”autostrada è viva, ma nessuno prende in giro gli altri su dove porti”, basta restare “qui seduto alla luce del falò, cercando il fantasma di Tom Joad”.


Edoardo Bennato – L’isola che non c’è

Una fisarmonica, un po’ di rock e un buon libro come ispirazione. Sono gli ingredienti dei due fortunati concept album di Edoardo Bennato, Burattino senza fili (1977) e Sono solo canzonette (1980). Il capolavoro di Carlo CollodiLe avventure di Pinocchio, è alla base del primo. Il gatto e la volpe, dove sono i due bricconi del titolo a prendere la parola e a proporsi come impresari all’ingenuo burattino, è la traccia più conosciuta, ma il disco è ricco di  interessanti personaggi: Mangiafuoco, La fata e il congresso dei dottori riuniti intorno al capezzale del morente Pinocchio che si confrontano in Dotti, medici e sapienti. Il secondo album, Sono solo canzonette, si rifà invece al libro di James BerryLe avventure di Peter Pan. Canzoni come L’isola che non c’èNel covo dei piratiIl rock di Capitano Uncino sono patrimonio collettivo, quasi al pari dei romanzi che le hanno ispirate.


Oasis – Don’t Look Back In Anger

Risale al 1995 uno dei brani-manifesto dei fratelli Gallagher tratta dal loro album di maggior successo (What’s the Story) Morning Glory?. L’ispirazione per il titolo e il ritornello è la commedia teatrale del 1956 dell’inglese John Osborne dal titolo Look Back In Anger (Ricorda con rabbia). Un’amarezza velata di ironia prende il posto della rabbia nel brano di Noel, a partire da quella negazione “don’t”. La sua è una rivoluzione che parte dal suo letto: rinuncia così a durezza e realismo che negli anni Cinquanta scrittori come lo stesso Osborne e registi come Tony Richardson avevano voluto invece esprimere al punto da meritarsi l’appellativo di “giovani arrabbiati”. Anche David Bowie trasse ispirazione dal medesimo testo per un omonimo pezzo scritto con Brian Eno e presente nell’album Lodger del 1979.

Blur – Tender


“Tender is the night”: l’incipit di questo inno all’amore firmato da Damon Albarn e compagni, non cela il richiamo diretto al celebre romanzo del 1934 di Francis Scott Fitzgerald Tenera è la notte, che a sua volta rendeva omaggio a un verso di Ode to a Nightingale del poeta inglese John Keats. È tratto dall’album 13 del 1999. “Tenera è la notte / bugiarda al tuo fianco / Tenero è il tocco / di qualcuno a cui vuoi molto bene / Tenero è il giorno / in cui i demoni se ne vanno / Signore, ho bisogno di trovare / qualcuno che possa guarire il mio animo”. Un tenero amore come quello tra i protagonisti di Fitzgerald, Rosemary e Dick che però viene frenato da Dick che, preso da un forte senso di responsabilità, non vuole lasciarsi andare e rifiuta, se pur dolcemente, l’offerta d’amore della ragazza: “Buona notte bambina. È un gran peccato. Dimentichiamo tutto questo… Tanta gente si innamorerà di te e sarà più bello incontrare il tuo primo amore tutta intatta, anche emotivamente. È un’idea antiquata vero?”.

Franco Battiato – Invito al viaggio

“Laggiù tutto è ordine e bellezza, / Calma e voluttà. / Il mondo s’addormenta in una calda luce / Di giacinto e d’oro. / Dormono pigramente i vascelli vagabondi / Arrivati da ogni confine / Per soddisfare i tuoi desideri”. Il cantautore siciliano cita fin dal titolo una poesia di Baudelaire tratta dai Fiori del male (1897): “Tutto, laggiù, è ordine e beltà / lusso, calma e voluttà”. Il brano è l’unico “inedito” insieme a Medievale in un album di cover, Fleurs, del 1999. I testi sono del filosofo catanese Manlio Sgalambaro, mentre le musiche sono di Battiato.

Metallica – For Whom The Bell Tolls


Il noto romanzo di Ernest Hemingway, Per chi suona la campana (1940) ha dato il titolo a questo classico della band di San Francisco, terza traccia dell’album del 1984, Ride the Lightning. La storia adattata in musica da Hetfield e compagni è quella di cinque soldati repubblicani della Guerra civile spagnola che cercano di sfuggire dai fascisti con i loro cavalli e sono poi uccisi da un aereo nemico su una collina. “Combattiamo perché abbiamo ragione. Ma chi l’ha detto?” si chiedono i Metallica in questo inno contro la guerra. Nello stesso disco è presente la strumentale The Call Of Ktulu, tratta dall’omonimo titolo di Howard Philip Lovercraft. I racconti horror-fantasy dello scrittore americano saranno un costante riferimento per la band.

Queen – Bohemian Rhapsody


Dietro questo capolavoro della rock band britannica si intravede il richiamo ad un romanzo-chiave del Novecento: Lo straniero di Albert Camus. Freddie Mercury sembra dar voce a un uomo privo di sentimenti, autore di un omicidio raccontato dai due autori. Ecco allora la confessione alla madre di aver premuto il grilletto e di aver ucciso un uomo: “Mama just killed a man, / Put a gun against his head, / pulled my trigger, now he’s dead. / Mama, life had just begun, / But now I’ve gone and thrown it all away”. Il brano, scritto interamente da Mercury, con la sua commistione di generi e di evocazioni (guerra, chiesa, eresia, confessioni, omosessualità, satana, Galileo, peccato originale) resta tuttora un enigma. Brian May ha dichiarato recentemente: “Il significato? Non credo lo sapremo mai, ma anche potendo non lo direi”. Bohemian Rhapsody, che ha compiuto lo scorso ottobre 40 anni, è tratto dall’album A Night at the Opera (1975).

The Cure – Killing an Arab


Anche Robert Smith, che si è spesso ispirato alla letteratura, per questo brano ha preso spunto dal romanzo Lo straniero di Camus (1942). “I’m alive, I’m dead, I’m the Stranger, Killing an arab” recita il ritornello di questo brano tratto dall’album Boys don’t cry (1980). “Il grilletto ha ceduto, ho toccato il ventre liscio dell’impugnatura e è là, in quel rumore secco e insieme assordante, che tutto è cominciato. Mi sono scrollato via il sudore ed il sole. Ho capito che avevo distrutto l’equilibrio del giorno, lo straordinario silenzio di una spiaggia dove ero stato felice. Allora ho sparato quattro volte su un corpo inerte dove i proiettili si insaccavano senza lasciare traccia. E furono come quattro colpi secchi che battevo sulla porta della sventura”. Le parole di Camus riecheggiano nel testo dei Cure che ricostruisce la terribile assurdità del gesto di Meursault.

Kate Bush – Wuthering Heights


“Heathcliff, it’s me, I’m Cathy, I’ve come home!” canta Kate Bush, con quel suo timbro inconfondibile, immedesimandosi nella protagonista del classico Cime tempestose (1847) di Emily Brontë a cui si rifà dal titolo. È stato questo il suo primo singolo, anno 1978, scritto l’anno prima e la cui ispirazione – su sua stessa ammissione – deriva più dalle ultime scene dell’omonimo film che dal romanzo. L’onirica interpretazione di un amore travagliato riecheggia in questo pezzo, il primo scritto da una donna a scalare la classifica dei singoli inglesi.

Francesco Guccini – Cirano


Sono numerosi i brani del cantautore ispirati alla letteratura: Don ChisciotteMadame BovaryOdissea, Ophelia, per citarne alcuni. Tratta da D’amore di morte e di altre sciocchezze (1996), la canzone è una rilettura e una riscrittura dell’opera teatrale Cyrano de Bergerac (1897) di Edmond Rostand: “Venite pure avanti, voi con il naso corto, / signori imbellettati, io più non vi sopporto, / infilerò la penna ben dentro al vostro orgoglio / perché con questa spada vi uccido quando voglio”. È contenuto nell’album del 1983 Guccini, la canzone Gulliver, una rivisitazione delle avventure del personaggio di Jonathan Swift: “Intuiva con la mente disattenta del gigante il senso grossolano della storia”, “e nelle precisioni antiche del progetto umano, o nel mondo suo illusorio e limitato, sentiva la crudele solitudine del nano”.

Iron Maiden – Rime of the Ancient Mariner


Ricordo che l’insegnante di inglese alle superiori – non propriamente l’emblema della fan dell’heavy metal – ci fece ascoltare questo brano in classe come perfetta sintesi dell’omonima opera del poeta del romanticismo inglese, Samuel Taylor Coleridge (1798). Contenuto nell’album Powerslave (1984), è la canzone più lunga composta dalla band britannica: 13 minuti e 45 secondi. “The mariner kills the bird of good omen / His shipmates cry against what he’s done / But when the fog clears, they justify him / And make themselves a part of the crime” (“Il Marinaio uccide l’uccello di buon auspicio / I suoi compagni urlano che cosa hai fatto / Ma quando la nebbia svanisce lo giustificano / E si accollano l’onta del peccato”). Bruce Dickinson e compagni non sono nuovi a contaminazioni e a citazioni nei loro pezzi: da Poe a Huxley, da Conrad a Golding e persino Umberto Eco. Sign of the Cross (The X Factor, 1995) è infatti ispirata al Nome della rosa.

Dire Straits – Romeo and Juliet


Non poteva mancare il Bardo e la sua tragedia d’amore più struggente tra le fonti di ispirazione. Questa canzone, che risale al 1980, si rifà a Shakespeare per i nomi dei due protagonisti, ma poi, nel testo, racconta di un amore non corrisposto o comunque precocemente concluso. Romeo canta il dolore e la disillusione per le promesse non mantenute da Giulietta, che lo ascolta impassibile.
Gli amanti di Venezia nella loro accezione tradizionale sono protagonisti invece in un brano dei Blue Öyster Cult, (Don’t Fear) The Reaper (1976), in cui i protagonisti non temono la morte (“le mietitrice”) e sono pronti ad amarsi per l’eternità: “Il giorno di San Valentino è finito / Proprio qui, ma ora loro se ne sono andati. / Romeo e Giulietta saranno assieme per l’eternità… / Romeo e Giulietta / Quarantamila uomini e donne ogni giorno / Come Romeo e Giulietta / Definiscono la felicità / Possiamo essere come loro”.


Altri esempi: The Velvet Underground con Venus In Furs ispirato all’omonimo libro Venere in pelliccia di Leopold von Sacher-Masoch; i Nirvana con Scentless Apprentice che cita Profumo di Patrick Suskind o Ramble on dei Led Zeppelin che fa diretti riferimenti a Il signore degli anelli.

venerdì 22 aprile 2016


Fabrizio De André diventa anche un sito

Il nuovo spazio web è voluto e curato dalla fondazione che porta il suo nome



È online www.fabriziodeandre.it, il primo sito ufficiale dedicato alla vita e alle opere di Fabrizio De André (1940-1999), nel quale è possibile immergersi nel suo mondo. Dalla sua musica alle sue parole, dai tributi che costantemente gli sono rivolti ai progetti ispirati alla sua opera e al suo pensiero.  

Il nuovo spazio web è voluto e curato dalla fondazione che porta il suo nome, che ha come presidente Dori Ghezzi De André e vice presidente Vittorio Bo. La fondazione si è proposta di raccogliere e arricchire i contenuti già presenti separatamente sul proprio sito e su quello del Centro Studi, in modo da dare vita così al primo sito ufficiale. L’obiettivo è di offrire a chi desidera conoscere e approfondire il suo pensiero e la sua opera, un unico luogo in cui gli studiosi potranno agevolmente accedere a tutte le informazioni che riguardano l’Archivio De André, che è conservato presso la biblioteca di area umanistica dell’università di Siena.  

La musica e le parole del cantautore genovese sono raccontate attraverso la discografia ufficiale e i testi di canzoni, in italiano e inglese. La discografia comprende tutta la sua opera, dai primi 45 giri alle ultime raccolte, la storia degli album di studio, le tracklist e le copertine che negli anni si sono succedute. Non mancano i dischi registrati dal vivo durante i tour, con le date dei concerti e le formazioni che hanno accompagnato De André sul palco dal 1975 al 1998. Presto online anche il primo canale video ufficiale dedicato a De André e nuove sezioni del sito per conoscere e approfondire tutte le iniziative legate a Faber. 

Pasolini abraza el deporte

'Sobre el deporte' es un compendio de artículos deportivos de Pier Paolo Pasolini. Preciosos textos, cargados de significado


El debate siempre ha existido. Algunos intelectuales le reprochan al deporte su capacidad alienadora y su poder para distraer a las masas, a las que aleja de problemas más importantes que un gol en el último minuto o una escapada de camino a la cima. Y durante mucho tiempo resultaba extraño que el mundo de la cultura reconociera que le gustaba el fútbol, por poner un ejemplo.

Leyendo Sobre el deporte (Contra), un compendio de artículos deportivos de Pier Paolo Pasolini, se caen algunos de los tópicos, aunque el propio autor los defendiera en su día: “los deportistas están poco cultivados, y los hombres cultivados son poco deportistas. Yo soy una excepción”. Preciosos textos, cargados de significado, que anticipaban la división del fútbol entre prosa y poesía, de alguien que recordaba como las tardes más bonitas de su vida las que pasaba de joven jugando al fútbol.


Cinco pistas sobre Pasolini



La madrugada del 2 de noviembre de 1975 Pier Paolo Pasolini fue asesinado en la playa de Ostia, no lejos de Roma. Tenía 53 años. Si esa muerte es el detonante de la novela de José María García López Pasolini o la noche de las luciérnagas (Nocturna), las últimas horas del cineasta y escritor ocupan la reciente película de Abel Ferrara en la que el flaco Willem Dafoe encarna al autor de Porcile (y habla, ay, en inglés con su madre). En el filme de Ferrara asistimos, por cierto, a la última entrevista concedida por PPP. Se publicó póstuma. En castellano puede leerse en el volumen Demasiada libertad sexual os convertirá en terroristas (Errata Naturae). “Mientras nosotros estamos aquí hablando puede que haya alguien en el bar planeando liquidarnos”, dice en esa charla. Dejó inconclusa la novela Petróleo (Seix Barral). "Contiene todo lo que sé. Será mi última obra", había dicho de ella.
 
Desagradable. En otra entrevista, esta de 1969, Pasolini cuenta que está escribiendo poesía “desagradable, desapacible”. Este año el poeta Martín López-Vega ha publicado una estupenda antología de los poemas del autor boloñés: La religión de mi tiempo (Nórdica). Otro poeta, Juan Carlos Abril, en colaboración con Stéphanie Amerie, es el autor de la traducción de su poemario más famoso: Las cenizas de Gramsci (Visor).

Imposible. Cuando Pasolini dice poesía dice también películas: “Haré cine cada vez más difícil, más árido, más complicado, y quizá incluso más provocador, para que sea lo menos consumible posible”. El consumismo fue una de sus obsesiones. Consiguió, decía, lo que no llegó a conseguir el fascismo: propiciar el individualismo, generar conformismo y despolitizar a los ciudadanos. Lo explica perfectamente en los artículos reunidos en Escritos corsarios (Ediciones del Oriente y del Mediterráneo). Ni que decir tiene que no han perdido vigencia.

Divino. Pasolini decía que la suya era una obra religiosa. En cierto sentido, está llena de ángeles y demonios (Teorema), pajarito y pajarracos, pícaros e inocentes. Empezando por la primera Accattone. Como reconoció siempre, la rodó sin tener ni idea de técnica cinematográfica. Fue en 1961. Tres años más tarde estrenó El Evangelio según san Mateo, algo así como la película que habría hecho Caravaggio si hubiera vivido en el siglo XX. En esa película, por cierto, el español Enrique Irazoqui hace de Jesucristo y la madre del propio director, de madre del mesías. Por su parte, el entonces joven filósofo Giorgio Agamben, que tanto ha escrito sobre la relación entre economía y religión, hace el papel de apóstol Felipe.

Futbolero. Pues sí, al poeta le gustaba el fútbol. El 16 de marzo de 1975, año de su muerte, tuvo lugar en Parma un partido entre el equipo que rodaba con Pasolini Saló o los 120 días de Sodoma, su última película, y el que trabajaba con Bernardo Bertolucci en Novecento. “El fútbol es el único gran rito que queda en nuestra época”, solía decir el primero, que reconocía el carácter de opio y evasión del espectáculo de masas que había sustituido al teatro -y casi a la misa- como representación sagrada. Algo que, sostenía, no había conseguido hacer el cine. La editorial Contra ha recogido este año enSobre el deporte algunos de los artículos que el incómodo intelectual italiano dedicó al ciclismo, el boxeo y, por supuesto, el fútbol.


sabato 2 aprile 2016

I diari inediti di De André: “Mi comperai la vita con i canti e i sorrisi”



Quando dalla pagina stampata, con le parole e i pensieri, si avvertono anche la voce profonda, l’intonazione venata dalla cadenza genovese, perfino il sorriso e lo sguardo curioso, allora l’incontro è completo. Eccolo Fabrizio De André, addormentato ma non spento dal tumore nel 1999 a 58 anni e ora qui a svelarsi in Sotto le ciglia chissà, un «diario» senza cronologia, raccolta di appunti fulminanti e riflessioni, aforismi e versi inediti, ricordi e dialoghi con se stesso, battute e nostalgie, fissati al volo su una busta o meditati su una pagina di quaderno, in comune a tutti il suo respiro poetico espresso scolpendo le parole.  

Racconta Dori Ghezzi, che ha selezionato l’immenso materiale di anni (ora conservato al Centro Studi Fabrizio De André presso l’Università di Siena): «Fabrizio annotava molto. Quando lo faceva in modo estemporaneo e improvviso forse era più per incidere nella memoria scrivendo più che per rileggere. Quando stava creando lo faceva in modo professionale, dentro un progetto, riordinando il materiale». Pubblicare quel pensare intimo eppure aperto come un dialogo è stato un lavoro di selezione, è stato raccogliere senza tradire la riservatezza di Fabrizio.: «Senza dare una sequenza temporale, si sono piuttosto unificati argomenti». 

E gli argomenti sono giorni vissuti e osservati. Quando annota «mi comperai la vita con i canti e i sorrisi» avvia un sorprendente viaggio nel comporre, entra nella creazione del cantautore («Perché scrivo? Per paura che si perda il ricordo delle persone di cui scrivo») ma ammonisce la nostra curiosità: «Non chiedete a uno scrittore di canzoni che cosa ha pensato, che cosa ha sentito prima dell’opera: è proprio per non volervelo dire che si è messo a scrivere. La risposta è nell’opera».
Brevi o più distesi nella riflessione e nell’introspezione, coriandoli di diario ripercorrono lo spettacolo sanguinante dell’emarginazione (che «ti sottrae al potere» e «ti avvicina al punto di vista di Dio»), scavano nelle guerre, si muovono tra la politica e il calcio, la sociologia della violenza e il rapporto tra i sessi.   

Non c’è tema - trattato nelle canzoni, ma anche incontrato in strada o nei libri - che sfugga al suo interesse, accompagnato dagli autori delle notti di lettura, da Plotino e Platone, da Petronio e Apuleio a Spinoza, Hegel, Adorno fino a Sartre, da Verlaine a Camus e Proust, da Šolochov e Steinbeck a Sepúlveda e Álvaro Mutis. Ma la miniera di cultura di De André non è una fornitrice di diamanti filosofici o letterari a se stanti, è una sorgente che irriga e fa fiorire altro sentimento e altra poesia. Sulla quale, trattando con umiltà il proprio lavoro, sparge un rammarico: «Per quanto c’è di poesia nelle nostre canzoni assolviamo al compito che è però dei poeti, che purtroppo nessuno legge più». 
E l’autoironia stabilisce i confini: «Noi siamo dei venditori. Bisogna vedere se siamo abbastanza onesti da vendere carne fresca oppure carne marcia».  

In 250 pagine incalzanti come un racconto folto di rami come la narrativa di Márquez, la «storia» procede con la consapevolezza del tempo («Perché lo chiamano passato, se non passa mai?») e percorre i temi delle canzoni: l’anarchia come «categoria dello spirito», l’emarginazione, la solitudine, il potere, l’iniquità, la morte. Percorre i mali di ieri immutati oggi: «Con i razzisti e con i nazisti non si convive, non si tratta, li si chiude, loro sì, dentro quattro mura, e che dimostrino lì la loro autosufficienza, le loro capacità di uomini superiori, la loro grande forza esercitata, chissà perché, sempre e soltanto con i deboli». Paiono scritte oggi, con la dolcezza di sempre, le pagine su emigrazione, sofferenza, nuova povertà. 

Il De André che guarda il mondo guarda con onestà se stesso e con tenerezza gli affetti e la memoria: l’infanzia di ricco attirato dai giochi con i compagni poveri e carichi di slanci, la famiglia d’origine, madre, fratello e quel padre illustre che ritorna come insopprimibile desiderio di reincontro, con un ringraziamento da porgergli. Le prime nozze, poi il matrimonio e la vita con Dori, i figli, Genova, il mare, la Sardegna, anche l’alcol, il sequestro di persona e il rapporto con la religione, con Cristo uomo e con un Dio da scoprire. 

«L’avrebbe pubblicata?». Questo Dori adesso racconta di essersi domandata a ogni frase, a ogni osservazione o confessione allo specchio. E non ha potuto che rispondere sì, perché in queste pagine è il Fabrizio che sapeva ascoltare e parlava con la convinzione serena di chi conosce il valore delle parole, la coscienza di sé e degli altri che animava l’umiltà con cui, alle prove dei concerti, si poneva con una pazienza infinita agli ordini dei tecnici che lavoravano con sapienza perché tutto fosse perfetto e poi andava lui stesso nell’ultima fila ad ascoltare perché nessuno fosse anche un poco escluso.

Leggendo guizzi fulminei o più elaborate analisi, si pensa al rischio che, in una società di comunicazione e immagine più che di contenuti, qualcuno provi a impossessarsi d’una frase tagliente o guizzante per impossessarsi di Fabrizio, ma anche da questo Dori lo sente riparato: «Certo, non essendo un extraterrestre, esprimeva pensieri nitidi e precisi, ma il suo pensiero non è rapinabile». E’ invece offerto per essere condiviso: chi di De André ha amato la poesia e la musica senza la fortuna di un dialogo leggendo queste pagine si ritrova in poltrona o sotto un albero a chiacchierare con lui, a fargli le domande che aveva in serbo e a sentirlo rispondere con la voce profonda e gentile.