mercoledì 2 novembre 2016

Pier Paolo Pasolini e Fabrizio De André: la poetica degli ultimi e la maggioranza


Esattamente quarantuno anni fa veniva ammazzato Pier Paolo Pasolini. In Italia la sua figura e le sue opere sono per fortuna molto presenti e la sua poetica è stata indagata sotto molti aspetti. Lo scritto che segue vuole ricordarlo accostandolo al più importante cantautore italiano, Fabrizio De André, attraverso un tema molto caro a entrambi: le questioni della maggioranza, il rifiuto di un’entità organizzata omologante, che diventa perciò escludente.

A Pasolini questi temi toccavano personalmente: un rifiutato che a sua volta rifiuta le regole del gioco e crea scandalo. Partiamo proprio da una riflessione del poeta:

«Io sono come un negro in una società razzista che ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante. Sono, cioè, un ‘tollerato’. La tolleranza, sappilo, è solo e sempre puramente nominale. Non conosco un solo esempio o caso di tolleranza reale […]. Il negro sarà libero, potrà vivere nominalmente senza ostacoli la sua diversità, ma egli resterà sempre dentro un ‘ghetto mentale’, e guai se uscirà da lì. Egli può uscire da lì solo a patto di adottare l’angolo visuale e la mentalità di chi vive fuori dal ghetto, cioè dalla maggioranza[…]. Egli deve rinnegare tutto se stesso e fingere che alle sue spalle l’esperienza sia un’esperienza normale, cioè maggioritaria.» [P. P. Pasolini, Gennariello, in Lettere luterane, 1975, pubblicato l’anno dopo.]

Quella degli ultimi è invece la poetica principale dell’intera produzione di Fabrizio De André e, in particolare, l’accusa verso una maggioranza escludente. Il tema è molto presente nei brani, ed è nominato esplicitamente nell’ultima canzone dell’ultimo disco, Smisurata preghiera (Anime salve, 1996). Leggiamone l’incipit:
 

 


Alta sui naufragi
dai belvedere delle torri,
china e distante, sugli elementi del disastro,
dalle cose che accadono al disopra delle parole
celebrative del nulla,
lungo un facile vento
di sazietà, di impunità;

sullo scandalo metallico
di armi in uso e in disuso,
a guidare la colonna
di dolore e di fumo
che lascia le infinite battaglie al calar della sera
la maggioranza sta.


Come si può vedere, l’accumulazione prepara sapientemente l’arrivo al termine ‘maggioranza’, in un incedere che sovraccarica i capi d’imputazione ed enfatizza l’accusa. Si crea in questo modo un’atmosfera marmorea e inchiodante e, proprio quando si arriva all’imputato, cioè appunto ‘la maggioranza’ e sul verbo ‘sta’ che scioglie finalmente l’accumulazione, De André riesce a evidenziare la straordinaria situazione di colpevole vantaggio.

«Chissà se Fabrizio De André era consapevole delle numerose similitudini che accomunano l’intero suo agire culturale a quello di Pier Paolo Pasolini […]. Vi sono in entrambi connotazioni ideologiche, etiche e sentimentali comuni nella rivendicazione di una radicale diversità che si esplicita in un’opposizione inesausta al mondo borghese e alla sua razionalità alienante e distruttiva.» [ R. Giuffrida e B. Bigoni, Canzoni corsare, in AA. VV., Fabrizio De André. Accordi eretici, Milano, Euresis Edizioni, 2001, pp. 63-64.]

E, forse, la vicinanza più evidente tra Pasolini e De André sta nei luoghi in cui cercare il riscatto: i bassifondi di quelle città non contaminate dal falso perbenismo borghese e dalla civiltà dei consumi. Genova per De André; Roma o Napoli per Pasolini. Da una parte i vicoli e i caruggi di Genova, i «quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi» (La città vecchia, in Tutto Fabrizio De André, 1966), in cui «una bimba canta / la canzone antica della donnaccia», in attesa di affinare «le capacità con l’esperienza», in cui tra ladri e assassini pure vanno a braccetto l’amore sacro e l’amor profano di Bocca di Rosa, Genova in cui convivono virtù e degrado, per dirla con Max Manfredi. Dall’altra parte le borgate romane dei ragazzi di vita di Pasolini, la «stupenda e misera città, / che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci / gli uomini imparano bambini» (Il pianto della scavatrice, in Le ceneri di Gramsci, 1957), oppure il brulicare della natura libertaria e libertina che crea vitalità, «nuda passione», viscere del ventre prolifico del golfo di Napoli, «nazione / nel ventre della nazione» (ivi, L’Appennino), luogo senza la razionalità che scarnisca «in luce d’intelletto […] / a Dio il povero rione», ma materia informe, preumana e vitale d’una vitalità non mediata, che vien fuori direttamente dal profondo istintivo e passionale. Dalla poesia L’Appennino, fino al trattatello pedagogico Gennariello del 1975, è interessante vedere come Pasolini identifichi nella città di Napoli il più grande esempio di vitalità popolare in cui «tutto è preumano, e umanamente gioisce».

Per Pasolini, nel 1975, a Napoli va il merito d’aver resistito alla rivoluzione consumistica, che aveva apportato dei cambiamenti profondi nella società italiana: per lui, drammaticamente, unica vera rivoluzione della storia d’Italia.

© & Il Fatto Quotidiano

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