mercoledì 2 novembre 2016

De André parla di Pasolini

Pier Paolo Pasolini e Fabrizio De André: la poetica degli ultimi e la maggioranza


Esattamente quarantuno anni fa veniva ammazzato Pier Paolo Pasolini. In Italia la sua figura e le sue opere sono per fortuna molto presenti e la sua poetica è stata indagata sotto molti aspetti. Lo scritto che segue vuole ricordarlo accostandolo al più importante cantautore italiano, Fabrizio De André, attraverso un tema molto caro a entrambi: le questioni della maggioranza, il rifiuto di un’entità organizzata omologante, che diventa perciò escludente.

A Pasolini questi temi toccavano personalmente: un rifiutato che a sua volta rifiuta le regole del gioco e crea scandalo. Partiamo proprio da una riflessione del poeta:

«Io sono come un negro in una società razzista che ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante. Sono, cioè, un ‘tollerato’. La tolleranza, sappilo, è solo e sempre puramente nominale. Non conosco un solo esempio o caso di tolleranza reale […]. Il negro sarà libero, potrà vivere nominalmente senza ostacoli la sua diversità, ma egli resterà sempre dentro un ‘ghetto mentale’, e guai se uscirà da lì. Egli può uscire da lì solo a patto di adottare l’angolo visuale e la mentalità di chi vive fuori dal ghetto, cioè dalla maggioranza[…]. Egli deve rinnegare tutto se stesso e fingere che alle sue spalle l’esperienza sia un’esperienza normale, cioè maggioritaria.» [P. P. Pasolini, Gennariello, in Lettere luterane, 1975, pubblicato l’anno dopo.]

Quella degli ultimi è invece la poetica principale dell’intera produzione di Fabrizio De André e, in particolare, l’accusa verso una maggioranza escludente. Il tema è molto presente nei brani, ed è nominato esplicitamente nell’ultima canzone dell’ultimo disco, Smisurata preghiera (Anime salve, 1996). Leggiamone l’incipit:
 

 


Alta sui naufragi
dai belvedere delle torri,
china e distante, sugli elementi del disastro,
dalle cose che accadono al disopra delle parole
celebrative del nulla,
lungo un facile vento
di sazietà, di impunità;

sullo scandalo metallico
di armi in uso e in disuso,
a guidare la colonna
di dolore e di fumo
che lascia le infinite battaglie al calar della sera
la maggioranza sta.


Come si può vedere, l’accumulazione prepara sapientemente l’arrivo al termine ‘maggioranza’, in un incedere che sovraccarica i capi d’imputazione ed enfatizza l’accusa. Si crea in questo modo un’atmosfera marmorea e inchiodante e, proprio quando si arriva all’imputato, cioè appunto ‘la maggioranza’ e sul verbo ‘sta’ che scioglie finalmente l’accumulazione, De André riesce a evidenziare la straordinaria situazione di colpevole vantaggio.

«Chissà se Fabrizio De André era consapevole delle numerose similitudini che accomunano l’intero suo agire culturale a quello di Pier Paolo Pasolini […]. Vi sono in entrambi connotazioni ideologiche, etiche e sentimentali comuni nella rivendicazione di una radicale diversità che si esplicita in un’opposizione inesausta al mondo borghese e alla sua razionalità alienante e distruttiva.» [ R. Giuffrida e B. Bigoni, Canzoni corsare, in AA. VV., Fabrizio De André. Accordi eretici, Milano, Euresis Edizioni, 2001, pp. 63-64.]

E, forse, la vicinanza più evidente tra Pasolini e De André sta nei luoghi in cui cercare il riscatto: i bassifondi di quelle città non contaminate dal falso perbenismo borghese e dalla civiltà dei consumi. Genova per De André; Roma o Napoli per Pasolini. Da una parte i vicoli e i caruggi di Genova, i «quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi» (La città vecchia, in Tutto Fabrizio De André, 1966), in cui «una bimba canta / la canzone antica della donnaccia», in attesa di affinare «le capacità con l’esperienza», in cui tra ladri e assassini pure vanno a braccetto l’amore sacro e l’amor profano di Bocca di Rosa, Genova in cui convivono virtù e degrado, per dirla con Max Manfredi. Dall’altra parte le borgate romane dei ragazzi di vita di Pasolini, la «stupenda e misera città, / che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci / gli uomini imparano bambini» (Il pianto della scavatrice, in Le ceneri di Gramsci, 1957), oppure il brulicare della natura libertaria e libertina che crea vitalità, «nuda passione», viscere del ventre prolifico del golfo di Napoli, «nazione / nel ventre della nazione» (ivi, L’Appennino), luogo senza la razionalità che scarnisca «in luce d’intelletto […] / a Dio il povero rione», ma materia informe, preumana e vitale d’una vitalità non mediata, che vien fuori direttamente dal profondo istintivo e passionale. Dalla poesia L’Appennino, fino al trattatello pedagogico Gennariello del 1975, è interessante vedere come Pasolini identifichi nella città di Napoli il più grande esempio di vitalità popolare in cui «tutto è preumano, e umanamente gioisce».

Per Pasolini, nel 1975, a Napoli va il merito d’aver resistito alla rivoluzione consumistica, che aveva apportato dei cambiamenti profondi nella società italiana: per lui, drammaticamente, unica vera rivoluzione della storia d’Italia.

© & Il Fatto Quotidiano

domenica 2 ottobre 2016

Pasolini Roma

“Quando sono arrivata a Roma per cantare, mi sono messa alla ricerca di buoni testi e ciò ha incuriosito gli scrittori. Io frequentavo l'ambiente degli intellettuali e una sera Alberto Moravia mi ha portato a casa Pier Paolo Pasolini. Ha suscitato subito il mio interesse: se ne stava lì, in un angolo, mi fissava dietro gli occhiali scuri. Io mi sono piantata di fronte a lui, gli ho tolto gli occhiali e con una voce molto Marlene Dietrich, gli ho chiesto: «Allora, hai paura di me?» È stato un colpo di fulmine.” (Laura Betti)


“Il successo non è niente. Il successo è l'altra faccia della persecuzione. E poi il successo è sempre una cosa brutta per un uomo.” (Pier Paolo Pasolini)  


“Il calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l'unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro.” (Pier Paolo Pasolini)





"Poiché il cinema non è solo un'esperienza linguistica, ma, proprio in quanto ricerca linguistica, è un'esperienza filosofica." (Pier Paolo Pasolini)



"Quando penso a Pasolini, a come agiva rispetto alla società, alle cose, mi stimo molto poco." (Massimo Troisi)


"Il Pasolini di Teorema ha una prospettiva spirituale che può essere accettata come la profonda riflessione di un cristiano." (Krzysztof Zanussi)


"Non ha importanza dove si è nati, quando come e dove si sono avuti i primi approcci con il calcio, per diventare un appassionato, un tifoso. Il tifo è una malattia giovanile che dura tutta la vita. Io abitavo a Bologna. Soffrivo allora per questa squadra del cuore, soffro atrocemente anche adesso, sempre." (Pier Paolo Pasolini)




 






Pasolini Roma

Per Pasolini Roma non fu semplicemente uno scenario cinematografico o un luogo in cui vivere. Con questa città egli ha avuto una relazione passionale, fatta di sentimenti misti di amore e odio, di fasi di attrazione e rifiuto, di voglia di allontanamento e di piacere del ritorno. Le circostanze difficili del suo arrivo a Roma lo hanno catapultato in un mondo e in una lingua non suoi, appartenenti ai sottoproletari delle borgate in cui la precarietà della sua situazione economica lo costringeva a vivere. Dalla scoperta di questo universo del tutto nuovo nascerà un'ispirazione potente ed è lì che Pasolini troverà, senza doverli cercare, i soggetti dei suoi primi romanzi e film. In seguito, per il Pasolini uomo pubblico e analista instancabile dell'evoluzione della società italiana, Roma sarà il principale punto di osservazione, il suo permanente campo di studio, di riflessione e di azione. Sarà anche il teatro delle persecuzioni che il poeta dovrà sempre subire da parte dei poteri di ogni genere, e dell'accanimento dei media che per 20 anni lo trasformeranno nel capro espiatorio, nell'uomo da demolire, a causa della sua diversità e della radicalità delle sue idee sulla società italiana.






lunedì 26 settembre 2016

Mamma Roma

"Per arrivare a Cecafumo – al mercato di Cecafumo – al posto cioè dove oggi dobbiamo lavorare – ho fatto una strada bellissima, tra le sette e le otto di mattina, che è un’ora in cui c’è una luce che conosco pochissimo perchè io di solito dormo fin tardi. Sono venuto lungo la Garbatella, le mura di San Sebastiano, l’Appia Antica, l’Appia Pignatelli, fino ad arrivare sull’Appia Nuova, e da qui attraverso degli enormi ruderi – gli archi dell’Acquedotto a cui sono aggrappati villaggi di tuguri – sono arrivato a Cecafumo (…).

Sono arrivato, e sul posto di lavoro mi aspettava tutta la troupe, le facce illuminate dal sole – sempre quel famoso sole quasi cadaverico e, nello stesso tempo, felice. E, mentre si girava la prima inquadratura, che è una specie di balletto contro i ruderi, eseguito dagli amici di Ettore (cioè del protagonista del film), mi è stato detto che la Magnani voleva vedermi un momento, prima di girare la sua sequenza.

Sono andato da lei che si era installata in una delle case tutte uguali costruite dall’Ina-Casa qui a Cecafumo. Un appartamentino di operai, ben tenuto, con mobili poveri, ma modernissimi, di compensato e di metallo, puliti e pieni di dignità: era dentro l’intimità di questa famiglia che l’ospitava, con i suoi truccatori e la sua parrucchiera, che si era accampata Nannarella.

Stava davanti allo specchio, con la sua angosciata tranquillità, la sua scontentezza, il suo impeto. Quello che doveva chiedermi era se quel giorno poteva recitare senza la parrucca (che di solito si mette, per comodità) in quanto voleva avere la faccia “sua”, completamente “sua”, per recitare l’ultima scena del film. La scena in cui le viene annunciato che suo figlio Ettore è morto e lei fugge urlando verso casa. Voleva chiedermi solamente questo. E l’ha fatto con un’aria talmente infantile, talmente sospesa, che mi ha commosso.

Aveva capito perfettamente il mio desiderio di vederla ingenuamente così com’è – quasi senza trucco, con la sua faccia vera – nel momento più tragico e doloroso del film.

Questo è un piccolo sintomo di come in realtà dopo un giorno soltanto, e non più, di crisi, i rapporti tra me e lei sono corsi via lisci, limpidi, leali.

Il problema praticamente era questo: io giro a brevissime inquadrature – inquadrature che non durano più di due, tre minuti al massimo – dei primi piani, delle figure intere, dei movimenti elementari – che poi coordino in montaggio che è esattamente quello che ho in mente prima di girare.

Ora la Magnani non è preparata a questo tipo di ripresa: è abituata, evidentemente, alle inquadrature lunghe, articolate, in cui lei apare in tutta la sua pienezza, coglie il personaggio sfumatura per sfumatura, di minimo passaggio in minimo passaggio, in tutte le più dettagliate e infime fasi dell’espressione. Così lavora da anni e quindi capisco che per lei sia stato difficilissimo adattarsi ad un genere di lavoro che invece coglie i sentimenti, le espressioni, i passaggi psicologici in un momento culminante, assoluto e fermo.

Qualcuno mi dice che la Magnani desidera parlarmi e io salgo da lei, nella stanzetta della famiglia di Cecafumo che la ospita.

Tira l’aria delle grandi occasioni. C’è il problema dell’inquadratura vista ieri, che ci ha angosciato, per diverse ragioni, tutti e due. E su questo siamo tutti e due d’accordo: è una inquadratura che va rifatta.

Io: «Discutiamo di questa inquadratura, Anna. L’inquadratura in cui tu ridi e chiedi a tuo figlio “E’ bella questa motocicletta che ti ho comprato? E’ come la volevi te?” Quel riso, parlami di quel riso».

Anna: «Quel riso. Tu sai meglio di me che, pur restituendo lo spirito con cui tu l’hai concepito, quel riso si può eseguire in tante maniere diverse. Il riso può venire prima, può venire dopo, può venire in anticipo, può venire in ritardo. Io sono una cosa fragilissima. C’è stato un momento in cui ho cominciato la scena e, all’azione, tu mi hai gridato “Ridi, ridi. Anna!” e io ho fatto una risata cretina. Mi sembra che il mio riso in quell’inquadratura sia falso, e siccome non mi è venuto spontaneo – e su questo mi sembra che sia d’accordo anche tu – mi ha fatto perdere l’equilibrio del resto della battuta. Insomma recito male, si, recito male, io, di cui si dice che sono un’attrice consumata, una vecchia volpe…».

Io: «Nel caso della cattiva riuscita di questa inquadratura siamo d’accordo. Però ciò che vorrei farti notare, non proprio a proposito di questa inquadratura, ma a proposito di molte altre inquadrature simili, è questo: il dirti “Ridi, ridi” mentre stai per recitare, cioè il mio imbeccarti dal di fuori, in una specie di iniezione di espressività, è un’abitudine che io ho preso facendo recitare gli attori della strada, alle cui facce io devo dare un colpo di pollice nel momento per loro più inaspettato, quasi a tradimento. Ora tu devi saper comprendere e perdonare questi miei interventi».

Anna: «Ma certo, ed è per questo che ne parliamo con tanta tenerezza e tanta amicizia. Io ho capito benissimo che tu funzioni con degli attori che prendi e plasmi come una materia grezza. Essi, pur con la loro intelligenza istintiva, sono dei robot nelle tue mani. Ora, io non sono un robot».

Io: «Ma questo è una difficoltà che io avevo calcolato. Anna. Amalgamare te con gli altri era il problema principe del mio nuovo lavoro di regista: ne avevo piena coscienza all’inizio del film. Non sarebbe meglio, su questo, essere reticenti?».

Anna: «No, io credo che occorra avere dei piccoli conflitti di chiarificazione. La via d’intesa tra due persone intelligenti si trova sempre. Altrimenti io ho la sensazione di funzionare senza avere la coscienza di quello che faccio; invece io ho bisogno, assoluto, di avere questa coscienza».

Io: «Questo, più che chiedertelo, lo pretendo. Non voglio che in tutto il nostro lavoro ci sia il minimo d’incoscienza in quello che fai. Dunque: sulla questione specifica di questa inquadratura del “Ridi, ridi, Anna!” siamo d’accordo su due cose: sul fatto che ho torto di intervenire quando reciti; un torto in parte giustificato… e sul fatto che tu hai accettato la mia possibilità di girare unicamente come giro, a piccole monadi figurative».

Anna: «Ah, alle volte, prendere una scena e cominciare dalla fine, mi scombussola un pochino, perchè non so com’è, come dev’essere l’inizio. Certo tu lo sai… però, da attrice cosciente, vorrei saperlo anch’io!».

(Pier Paolo Pasolini - tratto da “Mamma Roma, Racconto Diario Film")


Anna

Confusi con la pioggia
              sul selciato
              sono caduti
              gli occhi che vedevano
              gli occhi di Nannarella
              che seguivano
              le camminate lente
              sfiduciate
              ogni passo perduto
              della povera gente.
Tutti i selciati di Roma
              hanno strillato.
Le pietre del mondo

              li hanno uditi "
(Eduardo De Filippo)


«Mi piace parlare della casa che mi ha visto bambina.
Spesso, quando sono a Roma, passo sotto le finestre e le guardo. Ho voglia di salire i quattro piani, di bussare alla porta e dire: Buongiorno, sono nata qui, posso entrare? Avrei una voglia matta di comprarla, quella casa. Lo farò. Sarà come entrare nuovamente nel grembo di mia madre.
Una così bella casa, sul Campidoglio, con vista sul Palatino! Sì, sarà come ricominciare a vivere.
La mia stanza era là, alla seconda finestra a destra. Che bella la mia cameretta. Era tutto, per me. Così semplice, così ordinata. La pulivo tutti i giorni; volevo che fosse come un castello. In quella stanza ero sola al mondo, imparavo che cosa significa la solitudine. Allungata sul letto, gli occhi chiusi, sognavo. Era il mio gioco preferito. Sono al mare. C è il sole, ci sono le onde, la sabbia è calda. Adesso piove, e la terra emana il suo inconfondibile odore di terra. Viaggiavo molto lontano con la mia fantasia. Attraversavo muri, scalavo montagne, camminavo, camminavo, senza che nessuno potesse fermarmi…»


(Anna Magnani - tratto da “Anna Magnani. La Biografia” di M. Hochkofler)

venerdì 23 settembre 2016

“Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza, disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma getta una luce di dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia, almeno per la presenza lieta, inalterabile di lui. Ti prego, non parlarne con persona al mondo. Non voglio che si parli di questa cosa”. (Lettera all’amico Paolo Volponi)


mercoledì 21 settembre 2016

“Cara Maria”, “Pier Paolo mio”

Quando Maria Callas incontrò Pier Paolo Pasolini per girare Medea era una diva secondo alcuni ormai sul viale del tramonto, ma ancora in primissimo piano come personaggio da rotocalco. L´armatore greco Onassis, con cui aveva vissuto per nove anni, l´aveva lasciata per sposare la vedova Kennedy con uno sciame di pettegolezzi praticamente infinito. «Nove anni di sacrifici inutili», aveva commentato lei. L´incontro con Pasolini era stato propiziato da Franco Rossellini che con Marina Cicogna avrebbe prodotto il film: la Callas poteva essere un´ottima Medea e naturalmente un formidabile aiuto per un successo internazionale. Pasolini non era mai stato un frequentatore di teatri d´opera. Aveva visto un Trovatore a Bologna, quando aveva diciotto anni e non si era entusiasmato. Molti anni dopo, un Rigoletto visto a Caracalla con Ninetto Davoli gli era piaciuto, ma questo non cambiava niente. Nico Naldini dice che confondeva Cherubini con Boccherini.

Gli piaceva la musica classica che ascoltava in casa sua o da Elsa Morante che aveva una discoteca molto ben scelta, ma molto meno l´opera. Comunque della Callas voleva tutto meno la cantante o la diva: gli era piaciuto il viso, che rimandava a una realtà contadina primigenia, un viso addolcito dai trascorsi borghesi, ma molto intenso e vero. Pasolini disse a un certo punto che la Callas aveva la stessa verità di un Franco Citti preso dalla strada, come se dalla strada e non dal palcoscenico venisse anche lei. L´avrebbe ripresa con dei lunghi primi piani, mentre lei, che aveva avuto come regista anche Visconti, era abituata a stare in scena con il pubblico a una certa distanza. Le avrebbe spiegato la differenza tra il cinema e il teatro nella lettera ritrovata ed esposta in questa mostra in casa Testori a Novate, una lettera scritta dopo una giornata di lavoro insieme sul set, quando aveva notato in lei il turbamento per non essere stata pienamente padrona di sé e del suo corpo. «Questo stringimento al cuore lo proverai spesso, durante la nostra opera: e lo sentirò anch´io, con te. È terribile essere adoperati, ma anche adoperare».

Il cinema, le spiega ancora nelle righe successive, è fatto così: una frantumazione della realtà che poi viene ricomposta «nella sua verità sintetica assoluta». Medea fu un film faticoso: le riprese in Cappadocia, che figurava come l´antica Colchide, poi a Grado dove il Centauro ammaestra il giovane Giasone e infine a Pisa nella Piazza dei Miracoli dove, ad onta di ogni plausibilità cronologica, Pasolini aveva posto la Ragione in omaggio a Galileo: la razionale Corinto che si opponeva a Medea.

La Callas aveva avuto dalla produzione una cameriera, Bruna, oltre alla sua assistente Nadia Stancioff. Non lasciava mai i suoi due cagnolini. Il rapporto con Pier Paolo divenne intenso: fu più di un´amicizia e a un certo punto, complice una foto scattata in aeroporto dove si vedono i due scambiarsi un bacio sulle labbra, si parlò addirittura di amore. Ne parlarono cioè i rotocalchi e i giornalisti più inclini al gossip e la storia fu ripresa diverse volte. Uno scrittore spagnolo, Terence Moix, la rielaborò e voleva anche farne uno spettacolo.

In realtà si trattava di un amore impossibile, anche se tra i due c´era affetto e profonda confidenza. Pasolini era disperato perché Ninetto Davoli lo stava lasciando per una ragazza. Nell´agosto del ´71 aveva scritto a Paolo Volponi: «Sono quasi pazzo di dolore. Ninetto è finito. Dopo quasi nove anni Ninetto non c´è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma getta una luce di dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia».

La Callas fu messa a parte della tragedia e gli scrisse: «Sono infelice per te, ma contenta che ti sei confidato in me. Caro amico – sono infelice che non posso essere vicina in questi momenti difficili per te – come lo sei stato tu spesso con me. Tu sai bene in fondo che sarebbe andata così. Ti ricordi a Grado in macchina si parlava e con Ninetto di amore e che so io – dentro in me – le mie antenne tu dici – me lo dicevano quando Ninetto diceva che non si innamorerebbe mai – sapevo che diceva delle cose che era troppo giovane per capire. E tu in fondo uomo tanto intelligente – lo dovevi sapere. Invece ti attaccavi anche tu a un sogno – fatto da te solo – perché è così anche se ti addoloro con questa predicuccia piccola…».

Non è la prima volta che la Callas, che si firma «Maria (fanciullina)», si incarica di dire a Pier Paolo cose magari spiacevoli. In una lettera scritta «dalle nuvole» e cioè da un aereo della Olympic Airways in volo per New York, arriva a dirgli che l´amicizia di Alberto Moravia (con il quale lei e Pier Paolo insieme a Dacia Maraini avevano condiviso un viaggio in Africa) non l´ha mai del tutto persuasa.

«Sai, caro amico, di veri amici – o veri e basta, pochi ne ho trovati, per non dire nessuno… E ci tengo alla tua verità e sincerità. Siamo assai legati psichicamente – oso dire come raro si fa in vita». Un italiano dalla sintassi bizzarra, chiosa Nico Naldini nella sua Breve vita di Pasolini, «forse appreso nei corridoi dei teatri».

«Assai legati psichicamente»: Maria Callas coglie la profondità di un rapporto che non è semplice amicizia. Per Maria Pasolini riprende a dipingere in modo oserei dire carnale, usando elementi naturali, come il succo dei fiori, per Maria si adatta a fare una crociera con il panfilo di Onassis e a passare una vacanza nella sua isola, per Maria scrive poesie che Enzo Siciliano ha interpretato con finezza nella sua Vita di Pasolini. «La donna è per Pier Paolo “riapparizione ctonia” – riapparizione da un viaggio compiuto in luoghi mai percorsi. La donna torna con una notizia, la notizia del “vuoto nel cosmo” […] In Maria, Pier Paolo – una sera a Parigi (“Parigi calca dietro alle tue spalle un cielo basso/con la trama dei rami neri”) lesse una richiesta d´amore: amore fra donna e uomo. Vi lesse la consueta, antica, donnesca richiesta che l´uomo sia “padre”. Pier Paolo, a quella richiesta, non poteva dare risposta».

Le poesie per Maria figurano in una delle raccolte più problematiche di Pasolini: Trasumanar e organizzar uscita per la prima volta nel 1971. La precedente raccolta, Poesia in forma di rosa risaliva al 1964, dunque Trasumanar è un ritorno alla poesia dopo un lungo silenzio, con la volontà di tracciare alcune linee guida per il proprio scrivere versi. Trasumanar è, come si sa, un verbo dantesco e viene dal primo canto del Paradiso. Trasumanar è andare oltre l´umano, cui segue, nella Commedia, «significar per verba», cioè dare senso attraverso le parole. Pasolini gioca con il dettato dantesco, fino alla parodia («Manifestar significar per verba non si poria») e detta all´Ansa, per gioco, la propria scelta stilistica: «Smetto di essere poeta originale, che costa mancanza/ di libertà: un sistema stilistico è troppo esclusivo./Adotto schemi letterari collaudati per essere più libero./Naturalmente per ragioni pratiche». Andrea Zanzotto colse bene la difficoltà dell´insieme. I critici non si mossero per questa raccolta e Pasolini, provocatorio, si recensì da solo sul Giorno. Ma la poesia più luminosa non è tra quelle per Maria Callas: è una poesia per Ninetto, datata 2 settembre 1969. Si conclude così: «Della nostra vita sono insaziabile/ perché una cosa unica al mondo non può essere mai esaurita».

Pier Paolo Pasolini, da “la Repubblica”
Cara Maria, stasera, appena finito di lavorare, su quel sentiero di polvere rosa, ho sentito con le mie antenne in te la stessa angoscia che ieri tu con le tue antenne hai sentito in me. Un´angoscia leggera leggera, non più che un´ombra, eppure invincibile. Ieri in me si trattava di un po´ di nevrosi: ma oggi in te c´era una ragione precisa (precisa fino a un certo punto, naturalmente) ad opprimerti, col sole che se ne andava. Era il sentimento di non essere stata del tutto padrona di te, del tuo corpo, della tua realtà: di essere stata “adoperata” (e per di più con la fatale brutalità tecnica che il cinema implica) e quindi di aver perduto in parte la tua totale libertà. Questo stringimento al cuore lo proverai spesso, durante la nostra opera: e lo sentirò anch´io con te. È terribile essere adoperati, ma anche adoperare.

Ma il cinema è fatto così: bisogna spezzare e frantumare una realtà “intera” per ricostruirla nella sua verità sintetica e assoluta, che la rende poi più “intera” ancora. Tu sei come una pietra preziosa che viene violentemente frantumata in mille schegge per poter essere ricostruita di un materiale più duraturo di quello della vita, cioè il materiale della poesia. È appunto terribile sentirsi spezzati, sentire che in un certo momento, in una certa ora, in un certo giorno, non si è più tutti se stessi, ma una piccola scheggia di se stessi: e questo umilia, lo so.


Io oggi ho colto un attimo del tuo fulgore, e tu avresti voluto darmelo tutto. Ma non è possibile. Ogni giorno un barbaglio, e alla fine si avrà l´intera, intatta luminosità. C´è poi anche il fatto che io parlo poco, oppure mi esprimo in termini un po´ incomprensibili. Ma a questo ci vuol poco a mettere rimedio: sono un po´ in trance, ho una visione o meglio delle visioni, le “Visioni della Medea”: in queste condizioni di emergenza, devi avere un po´ di pazienza con me, e cavarmi un po´ le parole con la forza. Ti abbraccio.


lunedì 20 giugno 2016

 
"Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa, sta per non conoscerti più, neanche coi sensi... ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli"
 
 
 




giovedì 12 maggio 2016

La religione del mio tempo

"..ecco.... la Casilina,
su cui tristemente si aprono
le porte della città di Rossellini...
ecco l'epico paesaggio neorealista,
coi fili del telegrafo, i selciati, i pini,
i muretti scrostati, la mistica
folla perduta nel daffare quotidiano
le tetre forme della dominazione nazista...
Quasi emblema, ormai, l'urlo della Magnani,
sotto le ciocche disordinatamente assolute,
risuona nelle disperate panoramiche,
e nelle sue occhiate vive e mute
si addensa il senso della tragedia.
E' lì che si dissolve e si mutila
il presente, e assorda il canto degli aedi."

 (Pier Paolo Pasolini)


mercoledì 4 maggio 2016

Intervista di Fernanda Pivano a Fabrizio de André




Pivano Hai voglia di raccontarci come ti è venuto in mente di fare questo disco?

Fabrizio Spoon River l'ho letto da ragazzo, avrò avuto 18 anni. Mi era piaciuto, e non so perché mi fosse piaciuto, forse perché in questi personaggi si trovava qualcosa di me. Poi mi è capitato di rileggerlo, due anni fa, e mi sono reso conto che non era invecchiato per niente. Soprattutto mi ha colpito un fatto: nella vita, si è costretti alla competizione, magari si è costretti a pensare il falso o a non essere sinceri, nella morte, invece, i personaggi si Spoon River si esprimono con estrema sincerità, perché non hanno più da aspettarsi niente, non hanno più niente da pensare. Così parlano come da vivi non sono mai stati capaci di fare.

P. Cioè, tu hai sentito in queste poesie che nella vita non si riesce a "comunicare"? Quella che a me pare la denuncia più precorritrice di Masters, la ragione per la quale queste poesie sono ancora attuali, specialmente tra i giovani?

F. Sì, decisamente sì. A questo punto ho pensato che valesse la pena ricavarne temi che si adattassero ai tempi nostri, e siccome nei dischi racconto sempre le cose che faccio, racconto la mia vita, certo di esprimere i miei malumori, le mie magagne (perché penso di essere un individuo normale e dunque penso che queste cose possano interessare anche agli altri, perché gli altri sono abbastanza simili a me), ho cercato di adattare questo Spoon River alla realtà in cui vivo io. Perché ho scelto Spoon River e non le ho addirittura inventate io, queste storie? Dal punto di vista creativo, visto che c'era stato questo Signor Lee Masters che era riuscito a penetrare così bene nell'animo umano, non vedo perché avrei dovuto riprovarmici io.

P. Sicché le grosse manipolazioni che hai fatto sui testi sono state come delle operazioni chirurgiche per rendere il libro attuale, contemporaneo?

F. Sì. Addirittura per rendere più attuali i personaggi, per strapparli alla piccola borghesia della piccola America del 1919 ed inserirli nel nostro tipo di vita sociale. Quando dico borghesia non dico babau, dico la classe che detiene il potere e ha bisogno di conservarselo, no? il suo potere. Ma anche nel nostro tipo di vita sociale abbiamo dei giudici che fanno i giudici per un senso di rivalsa, abbiamo uno scemo di turno di cui la gente si serve per scaricare le sue frustrazioni (è tanto comodo a tutti, uno scemo...)

P. Dal libro hai preso nove poesie, scegliendole tra le più adatte a spiegare due temi che sembravano le più insistenti costanti della vita di provincia: l'invidia (come molla del potere esercitata sugli individui e come ingnoranza nei confronti degli altri) e la scienza (come contrasto tra l'aspirazione del ricercatore e la repressione del sistema). Perché proprio questi due temi?

F. Per quanto riguarda l'invidia perché direi che è il sentimento umano in cui si rispecchia maggiormente il clima di competitività, il tentativo dell'uomo di misurarsi continuamente con gli altri, di imitarli o addirittura superarli per possedere quello che lui non possiede e crede che gli altri posseggando. Per quanto riguarda la scienza, perché la scienza è un classico prodotto del progresso, che purtroppo è ancora nelle mani di quel potere che crea l'invidia e, secondo me, la scienza non è ancora riuscita a risolvere problemi esistenziali.

P. Chi ha fatto questa scelta dei temi e delle poesie?

F. Dopo aver fatto la scelta ne ho parlato con Bentivoglio al quale ho proposto di aiutarmi in questo lavoro. Tra noi ci sono state molte discussioni, come è ovvio e come è giusto. Bentivoglio tendeva a fare un discorso politico e io volevo fare un discorso essenzialmente umano. Alla fine la fatica più dura è stata, mai rinunciando a esprimere dei contenuti, quella di accostarsi il più possibile alla poesia. Fatica a parte devo dire che vorre incontrare un centinaio di Bentivoglio nella vita: se vivessi cent'anni, un disco all'anno, sarei l'autore di canzoni più prolifico del mondo.

P. Puoi spiegarmi meglio l'idea del malato di cuore come alternativa all'invidia?

F. Se ci riuscissi. Gli altri personaggi si sono lasciati prendere dall'invidia e in qualche maniera l'hanno risolta, positivamente o negativamente (lo scemo che per invidia studia l'enciclopedia britannica a memoria e finisce in manicomio, il giudice che per invidia raggiunge abbastanza potere da umiliare chi l'ha umiliato, il blasfemo che è un esegeta dell'invidia e per salirne alle origini la va a cercare in Dio); invece il malato di cuore pur essendo nelle condizioni ideali per essere invidioso compie un gesto di coraggio e...

P. Possiamo dire che ha scavalcato l'invidia perché a spingerlo non è stata la molla del calcolo ma è stata la molla dell'amore?

F. Ma sì, l'avrei detto io se non lo avessi detto tu.

P. E allora possiamo concludere con la vecchia proposta di Masters, che a trionfare sulla vita è soltanto chi è capace di amore?

F. Sì, a trionfare sono i "disponibili".

P. Anche per il gruppo della scienza hai trovato un'alternativa, vero? Bentivoglio mi diceva che per rappresentare il tema della scienza hai scelto il medico che ha cercato di curare i malati gratis ma non c'è riuscito perché il sistema non glielo ha permesso, il chimico che per paura si rifugia nella legge e nell'ordine come fatto repressivo e l'ottico che vorrebbe trasformare la realtà in luce e nel quale hai visto una specie di spacciatore di hashish, una specie di Timothy Leary, di Aldous Huxley. In che modo il suonatore di violino è un'alternativa?

F. Il suonatore di violino (che è diventato per ragioni metriche di flauto) è uno che i problemi esistenziali se li risolve, e se li risolve perché, ancora, è disponibile. E' disponibile perché il suo clima non è quello del tentativo di arricchirsi ma del tentativo di fare quello che gli piace: è uno che sceglie sempre il gioco, e per questo muore senza rimpianti. Non ti pare perché ha fatto una scelta? La scelta di non seppellire la libertà?

P. Allora si può dire che è questo il messaggio che hai voluto trasmettere con questo disco? Perché siamo abituati a pensare che tutti i tuoi dischi hanno proposto un messaggio: quello libertario e non violento delle tue prime ballate, come nella Guerra di Piero, quello liberatorio della paura della morte come in Tutti morimmo a stento, quello demistificante dei personaggi del Vangelo, come nel Testamento di Tito. Qual è il messaggio di questo Spoon River?

F. Direi, tutto sommato, che siamo usciti dall'atmosfera della morte per tentare un'indagine sulla natura umana, attraverso personaggi che esistono nella nostra realtà, anche se sono i personaggi di Masters.

P. E' chiaro che le poesie le hai tutte rifatte. Per esempio, nella poesia del blasfemo, tu hai aggiunto un'idea che non era in Masters, quella della "mela proibita", cioè della possibilità di conoscenza, non più detenuta da Dio ma detenuta dal potere poliziesco del sistema.

F. Non mi bastava il fatto traumatico che il blasfemo venisse ammazzato a botte: volevo anche dire che forse è stato il blasfemo a sbagliare, perché nel tentativo di contestare un determinato sistema, un determinato modo di vivere, forse doveva indirizzare il suo tipo di ribellione verso qualcosa di più consistente che non un'immagine così metafisica.

P. Mi diceva Bentivoglio che se la "mela proibita" non è in mano a un Dio ma al potere poliziesco, è il potere poliziesco che ci costringe a sognare in un giardino incantato. Cioè, il giardino incantato non è più quello divino dove secondo Masters l'uomo non avrebbe dovuto sapere che oltre al bene esiste il male.

F. Sì, in realtà per il blasfemo il giardino incantato non è stato creato da Dio ma è stato addirittura inventato dall'uomo e comunque la "mela proibita" è ancora sulla terra e noi non l'abbiamo ancora rubata. A questo punto hai capito che cosa voglio dire io per sognare: voglio dire pensare nel modo in cui si è costretti a pensare dopo che il sistema è intervenuto a staccarci decisamente dalla realtà.

P. Mi pare che la tua aggiunta non sia una forzatura, perché anche nella denuncia della manipolazione del pensiero, del lavaggio mentale esercitato dal sistema, Masters è un precorritore dei nostri problemi. Cerca di dirmi in che modo, quando eri ragazzo, a un ragazzo della tua generazione Masters è sembrato un contestatore.

F. Perché denuncia i difetti di gente attaccata alle piccole cose, che non vede al di là del proprio naso, che non ha alcun interesse umano al di fuori delle necessità pratiche.

P. Cioè più che la sua contestazione politica ti ha interessato la sua contestazione umana?

F. Sì, secondo me il difetto sostanziale sta nella natura umana.

P. Ritornando alle tue manipolazioni del testo, possiamo dire che l'aggiunta di questo concetto della "mela proibita" non detenuta da Dio ma dal potere del sistema è la manipolazione più grossa. D'altronde è passato mezzo secolo da quando Masters ha scritto queste poesie, sicché se questa galleria di ritratti la potesse riscrivere adesso non c'è dubbio che la sua vena libertaria gli farebbe inserire elementi che si è limitato a sfiorare come precorritore. Questo vale anche per l'altra grossa manipolazione che hai fatto, quella dell'ottico visto come proposta di un'espansione della coscienza. Ma proprio dal punto di vista stilistico, perché hai sentito la necessità di cambiare la forma poetica di Masters? Bentivoglio mi diceva che il verso libero di queste poesie non ti serviva, avevi bisogno di ritmo e di rima, questo è chiaro. Ma sembra quasi che tu abbia voluto divulgare, spiegare a tutti i costi.

F. Sì. Mi pareva necessario spiegare queste poesie; poi c'era la necessità di farle diventare delle canzoni. Cioè delle storie e una storia non è un pretesto per esprimere un'idea, dev'essere proprio la storia a comprendere in sé l'idea.

P. Ma come spieghi per esempio il fatto di aver usato parole di un linguaggio contemporaneo quasi brutale, per esempio nel verso della poesia del giudice "un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo vicino al buco del c..." e di avere per esempio inserito immagini come "le cosce color madreperla" in poesie che pur essendo piene di sesso sono espresse per lo più in forma asettica, quasi asessuata?

F. Perché anche il vocabolario al giorno d'oggi è un po' cambiato, e io ero spinto soprattutto dallo sforzo di spiegare il vero significato di queste cose. Quanto alla definizione del guidice, questo è un personaggio che diventa carogna perché la gente lo fa diventare carogna: è un parto della carogneria generale. Questa definizione è una specie di emblema della cattiveria della gente.

P. Tutto sommato mi pare che queste siano state le manipolazioni più pesanti che hai fatto ai concetti e al testo di Masters; e d'altra parte quando il libro è uscito, ai suoi contemporanei è sembrato tutt'altro che asettico e asessuato: il gruppo dei Neo-Umanisti lo aggredì come "iniziatore di una nuova scuola di pornografia e sordido realismo".

F. Capirai.

P. Comunque sono certa che non deluderai i tuoi ammiratori, perché le poesie le hai proprio scritte tu, con quella tua imprevedibile, patetica inventiva nelle rime e nelle assonanze, proprio come nelle poesie dell'antica tradizione popolare. Ma fino a che punto, per esempio, ti sei identificato col suonatore di violino (Jones, che nel '71 suona il flauto) che conclude il disco? E non voglio alludere al fatto che da ragazzo ti sei accostato alla musica studiando il violino.

F. Non c'è dubbio che per me questa è stata la poesia più difficile. Calarsi nella realtà degli altri personaggi pieni di difetti e di complessi è stato relativamente facile, ma calarsi in questo personaggio così sereno da suonare per pure divertimento, senza farsi pagare, per me che sono un professionista della musica è stato tutt'altro che facile. Capisci? Per Jones la musica non è un mestiere, è un'alternativa: ridurla a un mestiere sarebbe come seppellire la libertà. E in questo momento non so dirti se non finirò prima o poi per seguire il suo esempio.
Fernanda PIVANO

Intervista registrata a Roma il 25 ottobre 1971.
F. Ti sei dimenticata di rivolgermi una domanda: chi è Fernanda Pivano? Fernanda Pivano per tutti è una scrittrice. Per me è una ragazza di venti anni che inizia la sua professione traducendo il libro di un libertario mentre la società italiana ha tutt'altra tendenza. E' successo tra il '37 e il '41: quando questo ha significato coraggio.
Fabrizio DE ANDRE'

Fabrizio De André supporter

A book that traces the life of Fabrizio De André through the diaries of the Genoese singer-songwriter has just been published in Italy. It's called "Il Grifone fragile". Author Tonino Cagnucci found that 'Faber' alternated his passions for music and poetry to that for football, and spent hours taking notes on the matches of his team, Genoa.

martedì 3 maggio 2016

Wendell P. Blooyd

Prima mi incastrarono con l'accusa di condotta immorale,
non c'era alcuno statuto sulla blasfemia.
Poi mi rinchiusero come pazzo
dove fui picchiato a morte da una guardia cattolica.
La mia offesa era questa:
dicevo che Dio mentì ad Adamo, e lo destinò
a trascorrere una vita da stolto,
ignorando che al mondo c'è il male così come c'è il bene
E quando Adamo mise nel sacco Dio mangiando la mela
E vide oltre la menzogna,
Dio lo cacciò fuori dall'Eden per impedirgli di cogliere
il frutto della vita immortale.
Cristo Santo, voi gente di buon senso,
ecco quello che Dio stesso dice nel libro della Genesi:
"E il Signore Iddio disse: ecco che l'uomo
è diventato uno di noi" (un po' d'invidia, vedete)
"a conoscere il bene e il male" (la bugia che-tutto-è-bene smascherata)
"E allora, perchè non allungasse oltre la mano a prendere
e mangiare anche dall'albero della vita, e non vivesse in eterno:
per questo il Signore Iddio lo scacciò dal giardino dell'Eden".
(La ragione per cui, credo, Dio crugifisse Suo Figlio
per tirarsi fuori da quel brutto pasticcio, è che è proprio da par Suo)


Francis Turner

Non potevo correre o giocare
da ragazzo.
Da uomo potevo solo sorseggiare dalla coppa,
non bere -
perchè la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato.
Ora giaccio qui
confortato da un segreto che nessuno tranne Mary conosce:
c'è un giardino di acacie,
di catalpe, e di pergole dolci di viti -
là quel pomeriggio di giugno
al fianco di Mary -
baciandola con l'anima sulle labbra
all'improvviso questa prese il volo.


The Hill

Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,
l'abulico, l'atletico, il buffone, l'ubriacone, il rissoso?
Tutti, tutti, dormono sulla collina.

Uno trapassò in una febbre,
uno fu arso in miniera,
uno fu ucciso in rissa,
uno morì in prigione,
uno cadde da un ponte lavorando per i suoi cari -
tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie,
la tenera, la semplice, la vociona, l'orgogliosa, la felicie?
Tutte, tutte, dormono sulla collina.

Una morì di un parto illecito,
una di amore contrastato,
una sotto le mani di un bruto in un bordello,
una di orgoglio spezzato, mentre anelava al suo ideale,
una inseguendo la vita, lontano, in Londra e Parigi,
ma fu riportata nel piccolo spazio con Ella, con Kate, con Mag -
tutt, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina.

Dove sono zio Isaac e la zia Emily,
e il vecchio Towny Kincaid e Sevigne Houghton,
e il maggiore Walker che aveva conosciuto
uomini venerabili della Rivoluzione? *
Tutti, tutti, dormono sulla collina.

Li riportarono, figlioli morti, dalla guerra,
e figlie infrante dalla vita,
e i loro bimbi orfani, piangenti -
tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

Dov'è quel vecchio suonatore Jones
che giocò con la vita per tutti i novant'anni,
fronteggiando il nevischio a petto nudo,
bevendo, facendo chiasso, non pensando né a moglie né a parenti,
né al denaro, né all'amore, né al cielo?
Eccolo! Ciancia delle fritture di tanti anni fa,
delle corse di tanti anni fa nel Boschetto di Clary,
di ciò che Abe Lincoln
disse una volta a Springfield.


L'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e Non al denaro, non all'amore nè al cielo di Fabrizio De André


Tra il 1914 e il 1915 il poeta americano Edgar Lee Masters pubblicò sul "Mirror" di St. Louis una serie di epitaffi successivamente raccolti nell'Antologia di Spoon River. Ogni poesia racconta la vita di un personaggio, ci sono 19 storie che coinvolgono un totale di 244 personaggi che coprono praticamente tutte le categorie e i mestieri umani. Masters si proponeva di descrivere la vita umana raccontando le vicende di un microcosmo, il paesino di Spoon River. In realtà si ispirò a personaggi veramente esistiti nei paesini di Lewistown e Petersburg, vicino a Springfield (la città dei Simpson?) e infatti molte delle persone a cui le poesie erano ispirate, che erano ancora vive, si sentirono offese nel vedere le loro faccende più segrete e private pubblicate nelle poesie di E.L.Masters.

Il bello dei personaggi di Edgar Lee Masters, infatti, è che essendo morti non hanno più niente da perdere e quindi possono raccontare la loro vita in assoluta sincerità.

La storia della pubblicazione in Italia dell'Antologia di Spoon River è abbastanza particolare da meritare di essere raccontata. Durante il ventennio fascista la letteratura americana era ovviamente osteggiata dal regime, in particolare se esprimeva idee libertarie come nel caso di Edgar Lee Masters. La prima edizione italiana porta la data del 9 marzo 1943. Fernanda Pivano racconta «Ero una ragazzina quando vidi per la prima volta l'Antologia di Spoon River: me l'aveva portata Cesare Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c'è tra la lettura americana e quella inglese». I primi libri americani che Pavese portò alla Pivano, lei li guardò «con grande sospetto». Ma con l'Antologia di Spoon River fu un colpo di fulmine: «l'aprii proprio alla metà, e trovai una poesia che finiva così "mentre la baciavo con l'anima sulle labra, l'anima d'improvviso mi fuggì". Chissà perché questi versi mi mozzarono il fiato: è così diffficile spiegare le reazioni degli adolescenti».

Per un'adolescente cresciuta in un'epoca dominata dall'"epicità a tutti i costi" i versi di Masters e la loro "scarna semplicità" furono una rivelazione.

Quasi per conoscere meglio i personaggi, Fernanda iniziò a tradurre in italiano le poesie, naturalmente senza dirlo a Pavese: temeva che la prendesse in giro. Ma un giorno Pavese scoprì in un cassetto il manoscritto e convinse Einaudi a pubblicarlo. Incredibilmente riuscì a evitare la censura del ministero della cultura popolare cambiando il titolo in «Antologia di S.River» e spacciandolo per una raccolta di pensieri di un quanto mai improbabile San River.

«Si direbbe che per Lee Masters la morte - la fine del tempo - è l'attimo decisivo che dalla selva dei simboli personali ne ha staccato uno con violenza, e l'ha saldato, inchiodato per sempre all'anima.»
Cesare Pavese




Nel 1971 Fabrizio De André pubblicò l'album "Non al denaro, non all'amore nè al cielo", liberamente tratto dall'Antologia di Spoon River. De André scelse nove delle 244 poesie e le trasformò in altrettante canzoni.

Le nove poesie scelte toccano fondamentalmente due grandi temi: l'invidia (Un matto, Un giudice, Un blasfemo, Un malato di cuore) e la scienza (Un medico, Un chimico, Un ottico).

In questi due gruppi si possono scoprire delle simmetrie: il giudice perseguitato da tutti trasforma la sua invidia in sete di potere e si vendica, il chimico è tanto preso dalla scienza e dalla ricerca di un ordine perfetto da essere incapace di amare. Il malato di cuore rappresenta l'alternativa all'invidia, pur essendo in una situazione tale da poter invidiare tutti gli altri, riesce a vincere l'invidia grazie all'amore invece di lasciarsi trasportare dall'egoismo. I buoni propositi del medico vengono schiacciati dal sistema che lo obbliga a essere disonesto, mentre l'ottico vuole trasformare la realtà e mostrarci un'"altra" realtà più vera, per questo può essere accostato alle "Porte della percezione", il libro di Huxley da cui presero il nome anche i Doors. Il titolo del libro di Huxley - peraltro - si rifà a un verso del poeta inglese William Blake:

If the doors of perception were cleansed everything would appear to man as it is: Infinite. 
 
Il suonatore Jones è l'unico in questa raccolta di poesie a cui De André lascia il nome. Infatti, mentre nelle poesie originali di Edgar Lee Masters ogni personaggio ha un nome e un cognome, i titoli delle canzoni di De André sono generici (un giudice, un medico) per sottolineare che le storie di questi personaggi sono esempi di comportamenti umani che si possono ritrovare in ogni epoca e in ogni luogo. Il suonatore Jones, il personaggio con cui l'album si chiude, invece è unico, rappresenta l'alternativa alla vita vista come lotta per raggiungere i propri scopi. Per tutta la sua lunga vita il suonatore Jones ha fatto quello che più gli è piaciuto e per questo muore senza rimpianti.

Senza dubbio il suonatore Jones era anche il personaggio al quale De André avrebbe voluto assomigliare. Per Jones la musica non è un mestiere, è una scelta di libertà; anche De André soprattutto negli ultimi anni ha cercato di svincolarsi dalla prigione della musica come mestiere, pubblicando gli ultimi album a una distanza di sei anni uno dall'altro e riducendo le apparizioni in pubblico.

Un aspetto fondamentale dell'Antologia di Spoon River sono i legami tra i vari personaggi. Ognuno di questi cita molti altri e così è possibile vedere la stessa storia da punti di vista diversi.

Questo aspetto si perde nell'album di De André, era inevitabile riducendo la galleria dei personaggi a solo nove ritratti (anzi otto visto che la prima canzone, Dormono sulla collina, è l'introduzione a tutte le altre). Fa eccezione ancora una volta il suonatore Jones che viene citato nella prima poesia/canzone e si ritrova nella conclusione dell'album.

Nelle note di copertina dell'album si trova un'interessante intervista di Fernanda Pivano a Fabrizio. La stessa Pivano scrisse apposta per l'album anche una pseudo intervista a Edgar Lee Masters.

Le canzoni dell'album sono scritte da De André insieme a Giuseppe Bentivoglio per quanto riguarda i testi e a un giovanissimo Nicola Piovani per le musiche. È il secondo album propriamente "a tema" (oggi diremmo concept-album) di De André, dopo La Buona Novella. Gli arrangiamenti sono fondamentali, alcune delle canzoni di questo album sono tra le poche di De André che non renderebbero se accompagnate solo dalla chitarra. In particolare Un ottico parte come una classica ballata ma poi si apre a suggestioni psichedeliche e a mille voci che si rincorrono.

Proprio a causa degli arrangiamenti tanto sofisticati questi pezzi non venivano eseguiti spesso nei concerti, tant'è vero che nei vari dischi dal vivo di Fabrizio, l'unica canzone di questo album che viene riproposta è Un giudice, che la Premiata Forneria Marconi riarrangiò splendidamente negli storici concerti del 1979.

«Fabrizio ha fatto un lavoro straordinario; lui ha praticamente riscritto queste poesie rendendole attuali, perché quelle di Masters erano legate ai problemi del suo tempo, cioè a molti decenni fa. Lui le ha fatte diventare attuali e naturalmente ha cambiato profondamente quello che era il testo originale; ma io sono contenta dei suoi cambiamenti e mi pare che lui abbia molto migliorato le poesie. Sono molto più belle quelle di Fabrizio, ci tengo a sottolinearlo.

Sia Masters che Fabrizio sono due grandi poeti, tutti e due pacifisti, tutti e due anarchici libertari, tutti e due evocatori di quelli che sono stati i nostri sogni. Poi Fabrizio sarà sempre attuale, è un poeta di una tale levatura che scavalca i secoli.» (Fernanda Pivano) 

"Ha dei rimpianti?"
"No. Ho sempre impostato la mia vita in modo da morire con trecentomila rimorsi e nemmeno un rimpianto." (Fabrizio De André, nel 1967) 

«Ma non pensi che sarà un 33 giri con una eccessiva dose di pessimismo?»
«No. Io credo sempre nell'uomo e nelle sue risorse. Infatti ci sarà un personaggio, Jones il suonatore, che farà da contrappe­so agli altri; sarà lui a indicare la vera via alla felicità. Vive in campagna, lontano da tutto e da tutti, assaporando la meravigliosa musicalità che si esprime dalla natura. La morale del "mio" Spoon River è quindi "contentarsi di poco per vivere felici". Proprio come dice Jones il suonatore...» (Fabrizio De André in un intervista dell'ottobre 1971 )

«[Il suonatore Jones] è l'unico personaggio che viene chiamato per nome, è l'unico che afferma di aver vissuto una vita lunga e serena, senza nemmeno un rimpianto. Il musicista mostra di saper vedere meglio dell'ottico i messaggi reconditi della realtà; di saper guarire, più del medico, gli animi di chi lo ascolta regalando un sorriso; sa trovare, a differenza del matto, un proprio efficace linguaggio per esprimersi; gusta appieno la vita, come il malato di cuore non ha potuto fare e, cosa più importante, sceglie la libertà o, meglio, sceglie di vederla anche quando non è scritta. E con la vita può essere spezzato anche quello che di materiale lo ha accompagnato: il suo strumento (il violino in Masters, il flauto in De André), perché comunque il suo segno resterà.» (Matteo Borsani - Luca Maciacchini, Anima salva, p. 81)

sabato 30 aprile 2016

In mostra a Trieste i disegni inediti di Pasolini e le incisioni di Zigaina

Sabbia, conchiglie, foglie, fiori. Sono i materiali che Ninetto Davoli passa a Pierpaolo Pasolini, intento a realizzare i suoi disegni, sullo sfondo senza fine della laguna di Grado. Un inedito Pasolini pittore, nella scena di poesia quotidiana immortalata in uno scatto fotografico che ne restituisce tutta l’intensità. Anche questa immagine, come i disegni di Pasolini, saranno esposti a Trieste dal 16 aprile fino all’8 maggio. Una piccola mostra, una ventina di pezzi appena. Ma raccoglie e rilancia una storia importante, ricostruita all'interno di un progetto intitolato “Zigaina e Pasolini”, dedicato al sodalizio tra il pittore e il poeta-regista, sul set.

Nel contesto, partendo dalla location gradese del film Medea (1969), si è approfondito il rapporto di Pasolini e Zigaina con il territorio lagunare. Ed è nata così l'esposizione che al Museo Revoltella di Trieste, dal 16 aprile all' 8 maggio, mette a confronto i disegni realizzati da Pasolini sull'isolotto di Mota Safon e le incisioni elaborate da Zigaina nel complesso ed esistenziale rapporto con il suo territorio d'origine.

Durante la ricerca, grande è stata la sorpresa nel ritrovare un nucleo di disegni di Pasolini ancora nelle case dove l'autore le lasciò: da quel 1969, anno delle riprese del film, sino al 1972, quando si tenne l'ultima importante presenza di Pasolini a Grado, il regista produsse una serie ancora imprecisata di opere su carta che egli stesso donò agli amici che aveva incontrato nel territorio, cui spesso, come risulta di suo pugno, dedicò alcuni lavori.
Dimenticati da allora, sono riemersi partendo dalla testimonianza di Zigaina raccolta da Francesca Agostinelli, curatrice della mostra, negli ultimi anni di vita del pittore. Confrontando il racconto con materiali fotografici, carteggi e testimonianze del luogo, la critica ha ricostruito la tessitura di relazioni e amicizie che ha portato al ritrovamento dei disegni pasoliniani.
Si sono così individuate otto collezioni private tra Grado, Aquileia, Cervignano del Friuli, San Giorgio di Nogaro da cui sono riaffiorati nove disegni che testimoniano il paesaggio che Pasolini realizzò staccando l'occhio dalla macchina da presa. Si tratta di un ritratto di Maria Callas, la grandissima Medea nel film, sono pali e reti dell'isolotto di Mota Safon, location della casa del Centauro e fondale delle riprese con Laurent Terzieff, Maria Callas, Giuseppe Gentile.
Altri brani ancora riprendono i Lumi del Safon, in una lettura rapida del luogo testimoniata da una serie di fotografie in cui Pasolini disegna sull'isolotto gradese, accanto al pittore Zigaina e Ninetto Davoli. Si tratta di opere su carta realizzate senza ripensamento partendo dai mezzi che Ninetto Davoli passa al regista e completati da materiali prelevati dall'intorno: sabbia, conchiglie, foglie, fiori.

Tra tutti, Paletti del Safon pare realizzato nell'istante fermato da una fotografia. Pasolini è di spalle e Ninetto lo aiuta. Davanti a loro la vastità ferma della laguna. Ma l'inciampo dello sguardo è nell'assemblaggio “alla buona” di pali e reti, posto su un paesaggio a perdere davanti allo sguardo di Pasolini, che pur padroneggiando vastità vertiginose, si ferma sugli elementi poveri della prossimità.

Questi lavori saranno dunque visibili al Museo Revoltella, nella mostra «Le due lagune. I disegni di Pasolini, le incisioni di Zigaina», nella quale cinque dei pezzi ritrovati saranno accostati a un nucleo di opere di Pasolini provenienti dalla collezione Zigaina, amico del regista, che fu grande estimatore del Pasolini disegnatore e pittore e raccolse nella sua collezione privata quasi cinquanta opere dell'amico. Ma non finiscono gli elementi di novità della mostra: accanto ai ritrovamenti pasoliniani ci saranno due inediti di Zigaina che rappresentano le ultime opere realizzate dall'artista all'età di novanta anni. Sono l'estremo contributo al ciclo Verso la laguna, e rappresentano quel paesaggio affettivo ed esistenziale da Giuseppe Zigaina indagato sino agli ultimi giorni della sua vita.















 «Le due lagune. I disegni di Pier Paolo Pasolini e le incisioni di Giuseppe Zigaina»
a cura di Francesca Agostinelli
Civico Museo Revoltella, Trieste
Galleria d'Arte Moderna
16 aprile - 8 maggio 2016
http://www.museorevoltella.it