martedì 23 giugno 2015

Il Secolo del Grifone

 De Andrè e il Genoa: storia d'amore struggente, di un'intensa fede rossoblù. Storia d'amore raccontata in "Grifone Fragile", libro del giornalista Tonino Cagnucci, presentato oggi pomeriggio al Ferraris insieme a Pippo Spagnolo e e Roberto Scotto padri della Gradinata Nord e amici di Faber.

Cagnucci, caporedattore del Romanista, tifoso giallorosso e fan di De Andrè, svela nei particolari i dettagli della passione di De Andrè per il Grifone. Viene fuori un ritratto inedito di un De Andrè che si appuntava su un'agenda le formazioni del Genoa, i possibili acquisti per rinforzare il team rossoblù, o tabelle punti per raggiungere al più presto la salvezza. Quello che magari fanno tanti tifosi. Quello che faceva anche un tifoso speciale come Fabrizio De Andrè.

«Racconto la fede di De Andrè per il Genoa- spiega Cagnucci - il De Andrè in versione tifoso, dalla nascita fino alla morte. Si sapeva che lui era genoano, ma attraverso una lunga ricerca sono venuti fuori tantissimi aneddoti anche tramite i racconti di Dori Ghezzi. Quello che mi ha colpito di più è quello che riguarda i giorni della prigionia di De Andrè quando l'unico legame che gli permetteva di dialogare con i suoi rapitori era proprio il Genoa».

E la presentazione di oggi pomeriggio al Ferraris è stata anche l'occasione per festeggiare gli 80 anni di Pippo Spagnolo, celebrato dai tifosi della Nord con una torta a sopresa. Spagnolo, emozionato ha spento le candeline: «Genoani si nasce - le parole di Spagnolo - spesso ai miei amici rossoblù dico: "Sei già genoano, vuoi anche vincere? Non c'è bisogno, bastano emozioni come queste"».


http://www.ilsecoloxix.it/p/sport/2013/09/26/AQbORXV-grifone_fragile_rossoblu.shtml

lunedì 22 giugno 2015


De André e il calcio, due realtà che sembravano essere in antitesi fino alla pubblicazione del libro “Il Grifone fragile” di Tonino Cagnucci. E’ proprio l’autore a raccontare, in questa intervista, il percorso che l’ha portato alla scoperta della passione calcistica del più grande cantautore della musica italiana.

Qual è stato lo spunto che ti ha condotto sulle tracce del De André tifoso?
Un articolo di Repubblica del ’94, dove lessi per la prima volta che De André andava in trasferta a seguire il Genoa in serie C con il suo amico Pinelli, che era diabetico e ogni tanto si doveva fermare per fare una puntura di insulina. Quest’immagine mi è rimasta dentro. Uno così non poteva essere solo un simpatizzante, non c’entrava niente col vippaio.

Come sei arrivato ai diari? Sapevi che lì avresti trovato qualcosa sulla sua passione per il calcio?
Avevo letto qualcosa, ma sempre in modo marginale. Si sapeva fosse tifoso del Genoa, ma quanto e come era materia sconosciuta. A tutti, praticamente. Ho impiegato tre anni per scrivere il libro, raccogliendo tanti frammenti da siti e vecchi giornali. Poi nella parte finale della stesura del libro sono arrivato ai diari e lì è stato davvero come avere un tesoro tra le mani, perché c’era la conferma di tutto quello che avevo cercato per tre anni. Anche di più. E’ stato un bel momento.

Il libro contiene molte testimonianze, è stato impegnativo tirare le fila della vita parallela da tifoso?
Ho intervistato i personaggi più “in vista” magari c’è qualcuno che ne sa di più della sua genoanità e ancora non l’ho trovato. Ma sono state le parole di Dori Ghezzi quelle più importanti. E’ proprio lei che mi ha raccontato l’episodio più significativo, quando nel momento più drammatico, durante il sequestro, lui chiedeva ai sequestratori i risultati del Genoa. Nella stesura del libro mi sono progressivamente convinto che ero di fronte a un grande tifoso. C’è un pregiudizio colossale, soprattutto in Italia, sullo sport e la letteratura sportiva che spesso viene considerata non letteratura. Se anche De André, che io considero il più grande poeta dopo Dante, con un cervello e un cuore unici, ha una passione così forte per il calcio, allora si può parlare davvero solo di preconcetto.

Il libro propone un lato di De André totalmente inesplorato. L’interesse per il calcio di un personaggio della sua levatura, può innalzare il valore del mondo del pallone ad un livello più poetico?
Detta così spero di no, perché sarebbe un’operazione figlia dello stesso pregiudizio che la impedisce. Non devo avere bisogno di sapere che De André è tifoso per amare il calcio. De André amava il calcio, perché è una cosa bella, poetica, popolare. Pasolini era un filosofo del calcio, Carmelo Bene era un adoratore di Falcao. I veri geni sono tifosi, perché sono dotati di passionalità e attaccamento.

De André ha lasciato alcune riflessioni sulla sua visione del calcio. Quali sono quelle che senti più vicine alla tua sensibilità di tifoso?
Più che nei contenuti nella forma. Gli appunti su queste agende sono quelli di un tifoso bambino che scrive la formazione dei sogni, la tabellina per salvarsi, addirittura appuntava i diffidati della squadra avversaria due settimane dopo. E’ l’impressione di familiarità con quelle cose che ogni tifoso fa o ha fatto da bambino che mi coinvolge. Poi ci sono dei passaggi belli come quando difende la genoanità di Genoa. E’ un discorso che sento molto vicino visto che è un dualismo che si ripropone anche tra Roma e Lazio.

“Ho una certa reticenza nell’identificarmi con chi vince” Questa frase, che rappresenta bene anche il De André uomo, possiamo considerarla il manifesto del “vero” tifoso?
Il vero tifoso non è mai schiavo del risultato a prescindere. Per risultato intendi anche la vittoria non solo la sconfitta. Io sarei tifoso allo stesso modo anche se la Roma vincesse tutte le partite. Questa frase va letta come il manifesto del De André tifoso, ma soprattutto del cantautore, perché lui più di chiunque ha cantato i perdenti, gli sconfitti, gli ultimi. Lui si è innamorato del Genoa andando a vedere la prima partita persa contro il grande Torino, quello dei cinque scudetti, venendo da una famiglia dove il padre e il fratello erano tifosi granata. E’ tutta un’orgia di minoranza.

La letteratura sportiva può essere un mezzo di evoluzione culturale?
Certo. Il calcio è alta forma di cultura, perché la cultura non è una cosa cattedratica, ma è quello che fanno gli uomini. La cultura è sinonimo di artigianalità, soprattutto in questo periodo dove nessuno sa fare più nulla. Il costruire, il produrre, tutto ciò che non è naturale può essere considerato cultura. Il calcio ha le squadre, i colori, il tifo, l’incontro, i cori, i canti come diceva Pasolini il rito del calcio è l’erede di quello del teatro greco. Penso che, in questo periodo difficile per il mondo del pallone, l’unica speranza possibile è rappresentata dal mondo ultrà. Lo dissi quando scrissi il libro su De Rossi e passai per pazzo. Magari lo sono, però solo loro possono cambiare il mondo. In Turchia e in Egitto la rivoluzione è partita dagli ultrà sono loro che stanno guidando la rivolta.

Con questo libro hai avuto incontri e riscontri da parte di tifosi genoani?
A me è successo veramente come dice De André “da Palermo ad Aosta” o meglio da Catania ad Aosta. Nel libro c’è la testimonianza del signor Galifi che è siciliano, ma da emigrante al nord ha conosciuto De André e si è innamorato del Genoa per poi tornare in Sicilia e continuare a coltivare la sua passione per i rossoblu. Poi una tifosa genoana di Aosta mi ha contattato per complimentarsi del libro. Gli attestati di stima più belli li ho ricevuti dai genoani e di questo ne sono contento perché non è il mio mondo e sono riuscito a rispettare la loro anima.

Hai in cantiere qualche altro libro?
Ne ho due già in testa, ma per ora non voglio parlarne. Ho intenzione di godermi fino all’ultimo le emozioni che può darmi “Il grifone fragile”, perché ci tengo molto, quanto sono legato al primo libro “De Rossi: il mare di Roma”. Già all’epoca quando entrai in contatto con la casa editrice proposi De André, poi decidemmo di optare per De Rossi. “Il mare di Roma” ha avuto successo, ha venduto 7.000 copie vere ed è piaciuto molto. Poi mi hanno proposto di scrivere il libro su Totti ed io l’ho usato come pedina di scambio per avere poi l’appoggio per lavorare su De André.

Qual è la tua canzone preferita di De André?
Smisurata preghiera è molto bella, Crueza de ma pure. E’ come scegliere fra figli.


http://sportstory.it/2013/06/intervista-tonino-cagnucci-racconta-de-andre/

martedì 26 maggio 2015

Inedito: il fantamercato del genoano De André

La sua accanita, incrollabile e profonda fede rossoblù stupirà quei poveri di spirito che ritengono il tifo un trastullo inadatto agli intellettuali e agli artisti


Il 26 maggio 1991 il Genoa conquista una storica qualificazione alla Coppa Uefa. Il giorno dopo alla sede del Grifone viene recapitato un telegramma: "Grazie di cuore a Spinelli Bagnoli gli atleti e a tutti quanti hanno contribuito direttamente e indirettamente al ritorno del Genoa ai massimi livelli internazionali". Il mittente è Fabrizio De André. La sua accanita, incrollabile e profonda fede rossoblù, ignorata dalle biografie ufficiali ma ben nota ai correligionari (che prima di ogni partita intonano Crêuza de mä), stupirà quei poveri di spirito che ritengono il tifo un trastullo inadatto agli intellettuali e agli artisti. Tutti gli altri ringrazieranno Tonino Cagnucci per avere raccolto ne Il grifone fragile (ed. Limina) alcune strepitose pagine autografe che documentano la passione calcistica di De André. C'è un'agenda del Credito Lombardo del 1988, in particolare, che farebbe invidia a Nick Hornby: i risultati della Serie A e le classifiche aggiornate, di domenica in domenica, con il computo delle reti segnate e subite e della media inglese. Una quantità impressionante di statistiche, annotate con la precisione maniacale del ragazzino che si dedica al suo hobby preferito: la classifica dei marcatori, l'elenco dei diffidati, le gare da disputare in trasferta, con tanto di previsioni partita per partita e di auspicio finale: "Ci si salva a 27". E ancora: grafici di formazioni schierate alla vecchia maniera, con il libero dietro (Signorini, ovviamente) e i numeri da 1 a 11. C'è persino un personalissimo fantamercato, che riporta ordinatamente acquisti, cessioni e le ipotetiche quotazioni dei giocatori: in una di queste formazioni immaginarie militano Alemao, Matteoli, Pusceddu (scritto Puxeddu, alla maniera sarda), in un'altra Ferri, Alejnikov e Zavarov. Non manca una formazione dei sogni, una prefigurazione del fantacalcio prossimo venturo, al quale è facile ipotizzare, a questo punto, che De André si sarebbe appassionato: Cusin, Mazinho, Baresi, Ferri, Branco, Alemão, Rijkaard, Gullit, Hässler, Casiraghi, Baggio. Del resto De André, come tutti noi, aveva contratto il morbo da piccolo: in una lettera a Gesù Bambino chiede, tra i tanti doni, anche "la divisa da giocatore del Genoa". E da tifoso viscerale si sarebbe sempre comportato, come racconta il sampdoriano Ivano Fossati: "Personalmente ho più cara nei miei ricordi la parte di lui che lo faceva parlare basso, da buon genovese a un altro genovese a un altro genovese. Niente lessico da libro stampato, nessun massimo sistema, ma frequenti risultati di partite di calcio. Il Genoa". è la prima delle tante testimonianze che impreziosiscono Faber è solo rossoblù (ed. Galata), scritto con evidente passione da Fabrizio Calzia e Laura Monferdini, che hanno incontrato persone molto vicine a De André. Anzi, vicinissime, come Dori Ghezzi: "Quando ci conoscemmo negli anni negli anni Settanta e io lo sfottevo, lui ribatteva sempre con massima serietà e altrettanto puntiglio che il Genoa aveva nove scudetti, né più né meno del mio Milan...". "Lontano da Genova o da casa", ricorda invece il figlio Cristiano, "penava tutto il pomeriggio della domenica fino a quando non gli dicevano il risultato". Un tifoso vero, innamorato di Riva, di cui volle diventare amico, e di Meroni, che non perdeva occasione di ricordare. E, come ogni tifoso, sentiva più di ogni altra cosa la rivalità cittadina: in una delle prime interviste si augurava addirittura "l'eliminazione della Sampdoria"; vent'anni più tardi avrebbe commentato così una performance canora di Gianni Minà, arrischiatosi a stonare Crêuza de mä in diretta televisiva: "L'hai cantata da sampdoriano!”.

Valerio Rosa

lunedì 27 aprile 2015

Fabrizio De André, i due film per ricordare il poeta della musica

«Mi sento più contadino che musicista. Questo è il mio porto, il mio punto d’arrivo. Qui voglio vivere, diventare vecchio». Così diceva Fabrizio De André e pensava al suo giardino, a quel bosco di sugheri e lecci che fu il suo rifugio nell’Agnata nel cuore della Gallura. E poi c’è la musica e un ultimo indimenticabile concerto: Roma, teatro Brancaccio, 13-14 febbraio 1998.

L’11 gennaio 1999 il cantautore, compositore, poeta nato a Genova moriva. Il 27 e 28 maggio, distribuito da Microcinema, arriva in sala, un film speciale, evidente omaggio ad uno dei nostri artisti grandi. In realtà sono due film: quello sul complesso rapporto con la Sardegna e quello con la musica con il concerto integrale che chiuse la sua carriera, meno di un anno prima della sua scomparsa, sul palco con i figli Luvi e Cristiano.

“Faber in Sardegna & L’ultimo concerto di Fabrizio De André” e´ il titolo del doppio film. Prodotto da Clipper media in collaborazione con Rai cinema e in associazione con Meganos, l’associazione culturale Time in Jazz e la Regione autonoma della Sardegna, il film musicale restituisce, attraverso immagini d’archivio, spezzoni, materiali fotografici resi disponibili dalla Fondazione De André e dagli eredi il mondo artistico e anche privato di quello che Fernanda Pivano definì «il più grande poeta italiano degli ultimi 50 anni».

Così il secondo film, quello del concerto di Roma, disponibile ora in una versione mai vista prima, restaurato e rimasterizzato in ultra HD con audio 5.1, ci ricorderà la colonna sonora di De André (e per tanti spettatori la colonna sonora della loro vita) con Creuza de ma, Dolcenera, Khorakhané (sul palco è Luvi, allora ventenne a interpretare la poesia in lingua romané) e tanti altri sucessi, non ultima la “La storia di Piero” (70 anni dopo la Liberazione è una ballata da ricordare).

Il primo film, invece, con la regia del sardo Gianfranco Cubiddu, sarà il racconto di un De André intimo, uomo che, smessi i panni dell’artista conosciuto da tutti, indossa quelli dell’allevatore e del contadino. «C’è chi ha il mal d’Africa: io ho il mal di Sardegna», diceva De Andrè che fu sequestrato con Dori Ghezzi a Tempio Pausania nell’agosto del ‘79 e rilasciato qualche giorno prima di Natale, ma che mai abbandonò quella terra così amata.

Tra le interviste, spiccano varie personalità della cultura - tra cui Renzo Piano -, della musica e molti amici sardi del cantautore. Nel film c’è anche il presente della sua musica, suonata oggi dai tanti musicisti che ogni anno all’Agnata danno vita a concerti unplugged.

Nel film Faber in Sardegna, molti sono i musicisti ripresi dal vivo, durante i vari concerti all’Agnata organizzati dal Festival Time in Jazz in collaborazione con la Fondazione De Andrè (dal 2005 al 2011), e che rendono omaggio al cantautore: tra questi, insieme a Cristiano De Andrè, ci sono Morgan (autore di una commovente versione di Canzone dell’amore perduto al pianoforte), Paolo Fresu, Danilo Rea, Gianmaria Testa, Lella Costa, Maria Pia De Vito e Rita Marcotulli.

Ma negli spezzoni di archivio tante persone dall’architetto Renzo Piano, amico di De André a Paolo Casu, dirigente Ente Foreste della Sardegna, amico di famiglia, al parroco di Agnata don Salvatore che fu mediatore durante il sequestro a Filippo Mariotti, fattore dell’Agnata fin dall’origine, poi con i De Andrè per 27 anni.

«La storia che racconto - dice Cabiddu che a Carloforte, isola San Pietro, dirige il festival di Musica per cinema Creuza de Mà - parla di De André, ma se ne discosta continuamente per parlare di quello che rimane vivo di lui, in un posto come l’Agnata, nella musica, nelle parole della gente che lo ha incontrato, per poco o molto, per l’arte della musica, o che semplicemente l’ha accompagnato nel quotidiano lavoro dell’azienda agricola, della vita trascorsa in questo angolo di mondo».

Si tratta, continua il regista, di un film musicale che mette a fuoco il sentimento e l’emozione del paesaggio, poetico, riconducibile sempre alla musica re-interpretata oggi, in omaggio a De André: sulle ali del ricordo, che non vuole essere celebrazione ma ricordo vivo e attiva partecipazione.

Un documentario «dall’interno» - aggiunge nelle note di regia - che nasce dall’esigenza di raccontare il complesso rapporto, ad oggi solo sfiorato o talvolta trasfigurato in folklore, tra De André e un luogo speciale come l’Agnata e la Gallura».

(Alessandra Magliaro)

Faber in Sardegna - L'ultimo concerto di Fabrizio De André

giovedì 26 marzo 2015

"Nel Pallone"

"Nel pallone" è un viaggio personale, sociale e appassionato dietro il gioco del calcio. 

Con interventi di Valerio Mastandrea, Enrico Brizzi, John Foot, Roger Bromley, Andrea Aloi, Emidio Mimì Clementi, Matteo Marani, Stefano Bonaga, Simone Pieranni, Luca Pisapia, Paolo Sollier, Tonino Cagnucci, Ivan Grozny, Mauro Valeri, Simone Conte, Luca Di Bartolomei, Pete Wheatherby, i Mogwai, i Giuda, Francesco Totti, Paolo Pulici, i tifosi-soci dello United di Manchester, la polisportiva del Castel di Sangro, i bloggers di Lacrime di Borghetti e Sport alla Rovescia.


Giornalisti, scrittori, giocatori e appassionati tra Napoli, Roma, Milano, Genova, Bologna, Padova, Castel Di Sangro, Londra, Manchester, Nottingham, Liverpool, Preston…


Gli stadi, gli oratori, le piazze, i bambini, nei campi di calcio di mezza Italia e Inghilterra.
Tutti e tutto nel comune denominatore della passione "nel pallone", attraverso cui leggere la storia della cultura popolare e il racconto del racconto del Calcio.




Documentario scritto da WU MING 3 (Luca Di Meo), Christiano XHO Presutti, Giangiacomo De Stefano e raccontato da WU MING 2 (Giovanni Cattabriga), Produzione: La Effe TV (Feltrinelli) e Sonne Film.

mercoledì 25 marzo 2015

mercoledì 11 marzo 2015

Qui Supramonte, a voi Marassi


Sempre la stessa storia, quando ascolto “L’indiano” di Fabrizio De Andrè. Comodo sul mio divano scomodo, metto su l’album e mi godo gli shuffle di chitarra elettrica e il blues di “Quello che non ho”, una delle mie canzoni preferite in assoluto. Poi mi immergo nella poesia del “Canto del pastore servo”, del “Fiume Sand Creek” e di “Ave Maria”. E poi parte la traccia cinque e sono sopraffatto da un’emozione che rende impervia la strada per “Franziska”.
La traccia cinque è “Hotel Supramonte”. Un brano con un arrangiamento acustico su un tappeto di archi elettronici e un testo delicato e struggente, di un intimismo quasi doloroso. Racconta il sequestro di De Andrè e della moglie Dori Ghezzi per mano dell’Anonima Sequestri nel 1979, una storia di cui so tutto quello che gli innamorati cronici dell’arte di Faber sanno: il distacco da Genova, con cui “è stato meglio lasciarsi che non essersi mai incontrati”, il trasferimento nella tenuta sarda a due passi da Tempio Pausania, la subitanea infatuazione per il popolo isolano, il rapimento nella notte del 27 agosto, i quattro mesi di prigionia circondati di natura, sospiri e pioggia, il rapporto umano con i carcerieri, che consentivano ogni tanto ai due di rimanere slegati e senza bende, l’intimità con Dori. E poi il pagamento del riscatto e la liberazione, il perdono degli autori materiali del sequestro (ma non dei mandanti), la scelta di non costituirsi parte civile contro i suoi custodi, come li definisce lui stesso, addirittura di firmare la domanda di Grazia al Presidente della Repubblica nei confronti di uno di loro. Un pastore sardo condannato a venticinque anni di prigione, pena di molto superiore a quella dei committenti.
Quello che non sapevo e che ho scoperto nel pomeriggio di una recente domenica grigia e uggiosa è che l’empatia tra carcerato e carcerieri si fondava sulla passione per il calcio. E che l’unico contatto con il mondo esterno che De Andrè abbia chiesto e ottenuto erano i risultati del suo Genoa. Che determinavano il suo umore al punto che, racconterà, uno dei giorni peggiori fu quando seppe che i rossoblù avevano perso a Terni. Non immaginavo questa passione, ho approfondito e ho scoperto un mondo.
C’è una vasta aneddotica che lega De Andrè ed il Grifone. C’è De André che nasce nell’ultima settimana in cui il Genoa è primo in classifica nella sua storia, a quel punto del campionato. C’è la prima volta a Marassi nel 1947, a vedere Genoa-Torino e a scoprirsi genoano “per una forma di antagonismo precoce” contro suo padre e suo fratello, tifosi granata. Ci sono le agende in cui appunta le formazioni del Genoa, le tabelle salvezza, i sogni di mercato. C’è Paolo Villaggio, grande tifoso doriano e ancor più grande amico di Faber, che non si rassegna neanche dopo la morte al suo credo genoano. C’è, forse, la tentazione di scrivere un inno, e c’è la motivazione del rifiuto che è una dichiarazione d’amore più grande di qualsiasi inno: “Non posso scrivere del Genoa perché sono troppo coinvolto. L’inno non lo faccio perché non amo le marce e perché niente può superare i cori della Gradinata Nord. Semmai al Genoa avrei scritto una canzone d’amore, ma non lo faccio perché per fare canzoni bisogna conservare un certo distacco verso quello che scrivi, invece il Genoa mi coinvolge troppo”.
Chissà se gli sarebbe piaciuto questo Genoa che ogni volta che accarezza qualche velleità europea viene smantellato. Come se negasse ai suoi tifosi la possibilità di sognare. Immagino che avrebbe stimato Gasperini e avrebbe malsopportato Preziosi e tutto il suo universo di Gormiti, presunte combine, valigette zeppe di soldi, calciatori comprati e venduti come figurine. Immagino avrebbe tifato comunque il suo “Zena”, perchè, per dirla con le sue parole, “il tifo è una sorta di fede laica, nasce da un bisogno forse infantile ma pur sempre umano”. Ma sono certo che non avrebbe potuto fare a meno di amarlo. Perchè, di Grifone, Faber era malato. Per sua stessa ammissione, quando durante un concerto si fermò, poggiò per terra la chitarra e disse: “Scusate, vi devo dire una cosa. Ho una malattia”. Silenzio. Di tutti. Tirò fuori una sciarpa rossoblù. “Il Genoa. La mia malattia si chiama Genoa”. Chissà se è la stessa sciarpa rossoblù con cui si è fatto cremare.
© Gianni Marzano

venerdì 6 marzo 2015

"Il Grifone fragile": passione e sentimenti del genoano Fabrizio De Andrè


«Fabrizio De Andrè […] rientra in quella finora innominabile categoria senza genere di geni, di poeti, filosofi, persino martiri, che hanno amato e amano il pallone. Gli insospettabili. Gli insoliti noti».

Con questa bellissima frase ho deciso di iniziare la presentazione del libro dedicato ad un genoano d’eccezione; non a caso una recensione che compare dopo mesi di silenzio.

Devo dire la verità, cari lettori: l'opera mi ha piacevolmente sorpresa. Ho iniziato la lettura aspettandomi un lavoro di documentazione – poiché l'autore correttamente dichiara di aver lavorato sui materiali dell'Archivio del Centro Studi "Fabrizio De Andrè" presso l'Università di Siena – invece no. O almeno, non solo. Mi sono trovata alle prese con un vero e proprio romanzo; emozionante come un thriller e coinvolgente molto più di una biografia "tradizionale", arricchito da numerosissime testimonianze.

Quel che vorrei sottolineare, al di là del contenuto, è che "Il Grifone fragile" non è un lavoro autoreferenziale. Non è, cioè, scritto da un genoano, ma da un appassionato di De Andrè di dichiarata fede romanista. Eppure parla del Genoa - del nostro Genoa - con un amore e una dedizione esemplari, che forse noi non dedicheremmo a un'altra squadra, nemmeno al nostro "gemello" Napoli. Perché dico questo? Per evidenziare il fatto che, forse, il Genoa, con la sua storia, i suoi personaggi, i suoi tifosi è portatore di valori universali che vanno al di là del calcio giocato.

«Che cos’è il tifo? E’ una sorta di fede laica [...] nasce da un bisogno forse infantile ma pur sempre umano di identificarsi in un gruppo che ha come fine la lotta per la vittoria contro altri gruppi. Questo desiderio primario può essere contenuto in una rivalità sportiva o sconfinare nel fanatismo, ma questo penso sia un problema che in parte deriva dal carattere dei singoli, in parte dall’educazione che i singoli ricevono dalla società. Voglio dire che un individuo facilmente influenzabile, a cui la società insegna continuamente che la vita è soltanto una lotta a coltello per la sopravvivenza, facilmente diventerà un fanatico e nel momento in cui ipotizzerà la sconfitta della propria squadra in cui si identifica per un bisogno di protezione, considererà tale sconfitta, sia prima che la sconfitta si verifichi, per scongiurarne sia dopo che si è verificata, per vendicarsi...Il fattore “fanatismo” anche questo deriva dai pessimi esercizi e dai cattivi insegnamenti degli oligarchi e della civiltà dei consumi».

Non è un politologo o un sociologo che parla: è un cantante che ha sempre fatto della coerenza una regola di vita. E’ quella persona che ha rifiutato l’abbonamento onorario in tribuna d’onore al Genoa per la stagione 1998-99. E’ quella persona che invece di scegliere la via dritta della carriera paterna ha deciso di vivere di canzoni, che ha deciso, in un certo senso, di allontanarsi dalle orme di famiglia, come un moderno Francesco che restituisce le ricchezze al padre e si riveste di un solo saio.

Questo e molto altro troverete ne “Il Grifone fragile”, cari lettori.

Ve ne raccomando la lettura.


18.08.2013

© Monica Serravalle 

giovedì 26 febbraio 2015

La tribù viaggiante di De André e PFM

"De André che dorme per terra contro un termosifone? Non si era mai visto nulla del genere. Chi l'avrebbe mai immaginato che, da poeta di parole, Fabrizio potesse trasformarsi in poeta di strada? Le foto raccolte in "Evaporati in una nuvola rock" restituiscono un viaggio autentico mai rappresentato prima in Italia. La vita di tournée è così irreale da rendere azzardato botti di foto-verità, ma questo a quell'epoca mi premeva cogliere: la ruvidità più segreta di una tribù viaggiante, il lato ludico di Fabrizio, solo in parte affiorante nelle sue canzoni, e la forza prorompente di PFM. Non era questione di esibizionismi da rockstar angloamericane: volevo semmai catturare la magia di un incontro di artisti e di amiciche si sprigionava nel pallore lunare dei camerini, nell'apnea di suoni millesimati in prove su prove e nell'adrenalina a mille di concerti memorabili. Oggi sarebbe impossibile fotografare degli artisti così disarmati e così vivi, ma qui siamo nel 1978-1979. In queste fotografie nessuno è in posa, pur sapendo di essere fotografato. Nessuno se n'è preoccupato. Men che meno Fabrizio-Coda di lupo alla guida dei suoi guerrieri." Guido Harari